Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 31 Domenica calendario

Le sfide della Melonomics


Dicono gli astri che nel 2024 i nati sotto il segno del Capricorno potranno contare sulla benevolenza di Giove e Saturno, ma solo nella prima parte dell’anno. Dunque se gli oroscopi valgono qualcosa, Giorgia Meloni avrà la sorte dalla sua fino alle elezioni europee. La realtà delle cose le lascia un po’ più di speranza. Se la situazione in Ucraina e Medio Oriente non peggiorerà, entro giugno la Banca centrale europea avrà iniziato a tagliare i tassi di interesse, oggi ai massimi dal 2007. La gran parte delle banche d’affari fra cui Goldman Sachs prevede che alla fine del prossimo anno il costo del denaro sarà sceso di almeno di un terzo: dal 4,5 per cento al 3. Chi lavora sui mercati è persino più ottimista: tutto dipenderà dall’inflazione, al momento in forte calo. E siccome tassi più bassi significa meno oneri sul debito, a meno di gravi errori del governo, nel 2024 i problemi non arriveranno dai mercati. Ciò non significa che per Meloni sarà un anno in discesa, anzi.
Una delle ragioni che spingono i trader a credere in un forte taglio dei tassi, è la previsione di una crescita debole in tutta l’area della moneta unica. Se le cose non peggioreranno, il Pil italiano l’anno prossimo crescerà più o meno come quello appena trascorso, fra lo 0,6 e lo 0,8 per cento. Troppo poco per il terzo debito pubblico dell’Occidente.
Giovedì prossimo, quando incontrerà i giornalisti per quella che avrebbe dovuto essere la conferenza stampa di fine anno, la premier dovrà spiegare la ragione per cui ha deciso di sfidare l’Europa sulla ratifica di un trattato (quello di riforma del fondo salva-Stati, altresì noto come Mes) discusso da tre governi di diverso colore nell’arco di dodici anni. Del primo – era il Berlusconi quattro – Meloni era ministro. Quali che saranno le risposte, per Meloni tocca guardare avanti: entro gennaio a Bruxelles attendono il decreto con cui l’Italia deve dare attuazione alla revisione del Recovery Plan, per il quale abbiamo incassato la quarta rata e inoltrato la richiesta per la quinta. A conti fatti, il governo ha ottenuto fin qui 102 miliardi sui quasi duecento a disposizione, 70 dei quali a fondo perduto. Ora il problema è spendere per non doverli restituire. L’ultimo rapporto indipendente a disposizione (è dell’Ufficio parlamentare di Bilancio) dice che al 26 novembre abbiamo effettivamente utilizzato 28,1 miliardi, il 14,7 per cento del totale: 1,3 miliardi nel 2020, 6,2 nel 2021, 18,1 nel 2022, appena 2,5 nel 2023. A Palazzo Chigi, negli uffici del ministro delegato Raffaele Fitto, stanno lavorando al decreto da qualche giorno. Fitto ha chiesto a ciascun ministro un documento sulle spese di sua competenza. Nel frattempo dovrà presentare in Parlamento la relazione semestrale sullo stato di attuazione del Piano, che – così raccontano a Palazzo Chigi – darà un quadro più ottimistico dell’Upb sulle spese rendicontate.
Nel 2024 un altro ministro – quello del Tesoro Giancarlo Giorgetti – dovrà tenere fede ad un impegno scritto nei documenti di finanza pubblica: venti miliardi di introiti da privatizzazioni entro il 2026. A metà di novembre il governo ha venduto il 25 per cento del Monte dei Paschi di Siena, scendendo dal 64,2 al 39,2 per cento del capitale. Se le intenzioni verranno rispettate, nel 2024 sul mercato arriveranno anche una quota di Ferrovie dello Stato e di Poste. La prima promette introiti enormi, ma è a dir poco complicata. Oggi dentro al gruppo Ferrovie ci sono i treni, le rotaie, tutte le strade statali di Anas. Non solo: a primavera c’è da rinnovare i vertici. Difficile immaginare Meloni pronta all’operazione prima delle europee di giugno.
Le prime decisioni dell’anno potrebbero anzi andare in direzione opposta: due decisioni legate al destino di due colossi italiani, Ilva e Tim. Il più grande impianto siderurgico d’Europa è sull’orlo del fallimento, anche a causa del cinismo del suo socio Lakshmi Mittal. L’imprenditore indiano naturalizzato inglese non ha ancora fatto sapere al governo se inietterà nuovi fondi, venderà le sue quote, o nessuna delle due ipotesi, cosa che costringerebbe il governo all’amministrazione straordinaria. I sindacati, ricevuti due giorni fa a Palazzo Chigi, dicono che la situazione è disastrosa. E in effetti nei palazzi circola l’ipotesi che senza una soluzione gli impianti potrebbero fermarsi entro la prima metà di gennaio. Nel governo convivono ancora due linee: da una parte il ministro delle imprese Adolfo Urso, che vorrebbe vedere lo Stato ricomprarsi l’azienda, dall’altra Fitto e Giorgetti, contrarissimi a ristatalizzare un’azienda dal destino segnato. L’unica cosa che il governo non può permettersi è la chiusura di stabilimenti che danno lavoro a più di diecimila persone fra Taranto, Genova e Novi Ligure.
L’altra grana da risolvere è quella sul destino della rete di Tim. Quest’anno il Tesoro ha deliberato l’acquisto dei cavi in tandem con il fondo americano Kkr, ma il principale socio privato – il patron del gruppo Vivendi Vincent Bolloré – considera troppo bassa la stima fatta dal governo, e per questo a metà dicembre ha presentato ricorso al Tribunale di Milano contro la delibera del Consiglio di amministrazione a favore della cessione della rete. I francesi avrebbero potuto chiedere la procedura urgente, invece hanno optato per quella ordinaria, che non ferma il processo di cessione. Per farla breve, Bolloré cerca un accordo per strappare un prezzo migliore. Nel frattempo Giorgetti spera di chiudere l’unica privatizzazione fin qui realizzata per intero, quella di Ita. Negli uffici della Commissione europea pende ancora il via libera definitivo dell’autorità Antitrust. Da tempo il ministro leghista lamenta più o meno velatamente l’ostilità del governo di Parigi all’operazione: dopo aver visto sfumare più volte la fusione della ex Alitalia con Air France-Klm, i francesi assistono alle nozze con i concorrenti di Lufthansa.