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 2023  dicembre 31 Domenica calendario

Anselm Kiefer, l’alchimista che trasforma la cicatrice in un miracolo di poesia

Mancava negli studi di storia dell’arte contemporanea, un libro così ampio e rigoroso che consacrasse l’opera di Anselm Kiefer come una tra le più significative dell’ultimo secolo. Ora questa lacuna è stata colmata dal saggio titolato Prologo celeste di Vincenzo Trione pubblicato da Einaudi che condensa una riflessione iniziata già alla fine degli anni Ottanta e che davvero vale una vita intera di studi.
Una delle porte di entrata più suggestive che Trione apre al lettore per entrare nella dimensione labirintica dell’opera kieferiana è quella del rapporto dell’artista con le rovine. Sembra essere stato questo, anche biograficamente, il primo gesto poetico del piccolo Anselm che di fronte alle macerie provocate nel suo Paese (nasce a Donaueschingen, in Germania, nel 1945) dai terribili bombardamenti della Seconda guerra mondiale, prova ad estrarre da esse delle prime piccole forme architettoniche e scultoree. «Giocavo tra le rovine, non avevo nient’altro. Solo mattoni». Lavorare con quello che resta non è però solo una circostanza dettata dalla violenza della guerra, ma diventa la cifra più propria della sua intera opera. L’apocalisse non annienta mai del tutto, ma lascia sempre dietro di sé mucchi di macerie, detriti, scarti, rovine, reperti. È il marchio del primo trauma che si ripercuote in tutto il lavoro di Kiefer: il sangue, la morte, l’orrore, la violenza, il dolore inconsolabile della perdita. L’artista non rimuove questo traumatismo, ma lo assume come fosse la materia prima della sua arte in un gesto che appare insieme luttuoso e redentore. Per unverso, si tratta di non voler dimenticare, di riattraversare, come in una coazione a ripetere necessaria, la devastazione della guerra. Per un altro verso diviene decisivo non lasciare alla morte l’ultima parola, mostrare che anche laddove il suo “pungiglione” ha colpito la vita c’è sempre la possibilità di fare di ciò che resta un “seme santo”, come il profeta Isaia dichiarava saranno destinati a divenire i “ceppi” sopravvissuti alla distruzione di Gerusalemme. È quello che prova a fare Kiefer: trasformare il ceppo della rovina in un seme santo. Non solo nella ricorrente presenza vangoghiana dei grandi girasoli neri che evocano la forza irriducibile, anche se carbonizzata, del seme, ma, più in generale, nel suo conservare memoria di ciò che è stato, nella sua ostinazione di non voler dimenticare.
Al tempo stesso, la creazione artistica è anche un movimento che, proprio a partire dalla nostra provenienza storica, si apre verso un tempo che non è ancora accaduto, verso un avvenire che non è ancora stato né visto né conosciuto. Da una parte, come mostra con efficacia Trione, Kiefer trattiene il tempo che passa nei materiali che utilizza nella sua pittura. È il tratto archeologico della sua opera che trasforma, per esempio, una semplice macchina da cucire, «avvolta in una ragnatela fatta di rovi», in una sorta di «fragile monumento». Ma la memoria kieferiana non viene mai separata dal trauma poiché il passato è sempre ancora presente. Per un’altra parte, il compito dell’arte non è rimuovere il reale del trauma, ma presentificarlo in una forma che sia in grado di mostrarne la tragicità e, nello stesso tempo, la redenzione. Per questa ragione Trione considera Kiefer un anti-Andy Warhol. Non si tratta di appiattirsi sul presente, ma di perseguire un nuovo avvenire. Nondimeno, è troppo intensa in Kiefer la dimensione tragica della vita per poter coltivare ogni forma di illusionismo compreso quello dell’utopia. Piuttosto il futuro assume il carattere di una trasformazione perennemente in corso. La memoria non è un cimitero dei ricordi, ma un arsenale che vive di vita propria, fatta di tracce che non smettono di mormorare, di frammenti viventi che aspirano a conquistare una nuova forma.
Alla straordinaria fondazione di Barjac (alla quale sono dedicate pagine bellissime) come a Croissy, Kiefer accumula ogni genere di materiali come fossero resti di un’epoca lontana. Egli assume come propria la lezione di Warburg che situava il divino nel dettaglio delle cose. Ciascuno di questi oggetti è una materializzazione lirica del tempo presa in una “a-sistematica polifonia” che sa incarnare, come in un flusso, la pulsazione stessa del tempo. Di nuovo rovine, resti, oggetti abbandonati, consumati, estinti, esauriti, fuori moda, fuori uso. Per poter ritrovare attraverso di essi il segreto del tempo è necessario rompere il diaframma del loro uso convenzionale. Solo in questo modo essi possono apparire, scrive Trione, non come oggetti di consumo ma come «idoli del meraviglioso». Ancora una volta quelloche pare essere morto, consegnato alla propria fine, grazie al lavoro dell’arte, può risorgere e ritornare in vita. In questo senso il lavoro della memoria non cade nel risentimento nostalgico, ma si sporge in avanti, infondendo retroattivamente una luce nuova su tutto ciò che è già stato. Come fa notare Trione è l’anti-idealismo di fondo di Kiefer: non sono le idee che danno forma ad una materia informe, ma è la materia che si offre come generatrice infinita di forme. L’artista-alchimista può generare solo dalla distruzione e, dunque, da una vocazione profondamente iconoclasta. Di nuovo ritorna qui il primo gesto del piccolo Anselm che assembla in forme nuove ciò che è sopravvissuto alla tragedia della guerra. Come le sue famose torri che si sostengono in una condizione di permanente fragilità e ai cui piedi si ritrovano i resti di una catastrofe.
Si tratta, come sintetizza bene Trione, di una “poiesis alchemica” capace di rendere «ogni reliquia altro da sé, in una generazione continua». Insomma, ogni volta l’arte realizza così il suo miracolo: trasfigurala cicatrice in poesia.
Assume come propria la lezione di Warburg: il divino è nel dettaglio delle cose