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 2023  dicembre 31 Domenica calendario

Il senso di Capote per il Natale


È un genere letterario a sé, il racconto di Natale: Dickens ne ha forse prodotto la matrice; e non c’è autore occidentale che prima o poi non sia stato raggiunto dalla committenza o dalla tentazione. Con risultati diseguali, e scivolando spesso nel testo d’occasione. Oppure, al contrario, trovando il pretesto per affondare nella propria parte in ombra, con una sincerità spietata, e con struggimento. Così accade a Truman Capote, che i più accostano all’impresa di giornalismo narrativo diA sangue freddo o alla mondanità cruda e pettegola che ha frequentato da protagonista, da carnefice e infine da vittima, ha avuto un’altra, forse più nascosta ma più decisiva natura. Fatta di candore e tenerezza, come di chi rimanga impigliato all’infanzia e insieme a qualche sua illusione innocente e ostinata. Più nello specifico: al segmento felice – direbbe lo stesso scrittore – di un’infanzia difficile. Affidato da genitori assenti alle cure di una cugina-zia, Capote ebbe per unica vera grande amica dei suoi 7-8 anni «un’attempata zitella» dai capelli bianchi, con un viso simile a quello di Lincoln. Rimasta un po’ bambina anche lei: Sook è una che parla da sola, ama passeggiare sotto la pioggia, fiuta il tabacco di nascosto. «Oltre a non aver mai messo piede in un cinema, non ha nemmeno mai mangiato al ristorante, viaggiato per più di cinque miglia da casa, ricevuto o inviato un telegramma, letto altro che non fosse la pagina dei fumetti o la Bibbia, fatto uso di cosmetici, bestemmiato, augurato il male a qualcuno, mentito di proposito, lasciato affamato un cane affamato».
Sook e il bambino Truman detto Buddy trascorrono insieme gran parte del loro tempo nella cucina di una casa in Alabama, nella «calda serenità» emanata in inverno da una enorme stufa, «che era spesso tenebrosa e splendente a un tempo». Così la descrive Capote nel raccontoUn ricordo di Natale: nel 1958 lo affianca al breve romanzo che, ben prima di A sangue freddo, gli dette celebrità, Colazione da Tiffany. Libro frainteso o sottovalutato, forse proprio perché messo in ombra dalla sua trasposizione cinematografica. Ed è un peccato, perché con inarrivabile stile e leggerezza Capote scrive la sua versione di Madame Bovary anni Cinquanta; e lì indossa allo stesso tempo i panni della stralunata protagonista e quelli dello scrittore innamorato di lei. Sotto una coltre quasi frivola, Capote nasconde un’elegia, un inno per i romantici squilibrati che non riescono a trovare o a ritrovare un posto nel mondo. È proprio nel racconto di Natale del ’58 che Capote descrive la cucina di Sook come il posto sicuro, lo spazio di un’appartenenza. «Là non potrebbe mai capitarti qualcosa di brutto» dice Holly della celebre gioielleria; e Buddy potrebbe dire lo stesso di quella stanza in cui la sua anziana amica prepara trentuno torte imbevute di whisky in vista del Natale. Ha l’intenzione di recapitarle non ai parenti stretti ma a chiunque abbia lasciato un segno nella sua fantasia: «Buddy, credi che la signora Roosevelt servirà il nostro panfrutto a pranzo?». Sook vorrebbe anche regalare al “nipote” una bicicletta, ma le magre finanze le permettono di allestire per lui soltanto un aquilone. Quello che all’autore parrà di vedere volteggiare scrutando il cielo in una mattina di dicembre di qualche anno dopo: la vecchia Sook non c’èpiù, se n’è andata per sempre – «amputando una parte di me insostituibile». Il Capote che scrive queste pagine non ha ancora 35 anni.
Quello che torna sugli stessi temi nel 1982 ne ha quasi sessanta. Non lo sa, ma gli manca poco tempo da vivere.
Un Natale è uno degli ultimi testi che riesce a scrivere: depresso, intossicato, alcolizzato, torna nell’unico posto sicuro della sua vita. Racconta – come se non lo avesse mai fatto prima – la sua infanzia di bambino orfano di genitori vivi; e rievoca un altro indimenticabile Natale. Stavolta però nel peggio: perché gli toccò staccarsi da Sook e raggiungere il padre. Ricco e circondato da signore d’età, una specie di gigolò avvinazzato. Che ogni tanto stringe il figlio a sé: «Dammi un bacio. Ti prego. Ti prego. Dammi un bacio. Di’ al tuo papà che gli vuoi bene». Ma lui non risponde, vorrebbe solo tornare da Sook, e portare con sé un aeroplano giocattolo visto in una vetrina di Canal Street a New Orleans. La sera della vigilia, dopo una festa, un rumore lo sveglia: e vede suo padre intento a sistemare una piramide di pacchi intorno all’albero. «Se quei regali erano destinati a me, era ovvio che non era stato il Signore a ordinarli né Babbo Natale a consegnarli». È stupito. È rattristato. Ma l’unica vera preoccupazione riguarda la sua amica lontana: «Adesso dovrò essere io a dire la verità a Sook». È un passaggio impressionante: Buddy è più dispiaciuto per lei che per sé stesso; e fa finta di niente con suo padre. Salvo rispondergli – quando lui chiede se gli sono piaciuti i regali di Babbo Natale – con una domanda: «Sì, ma tu cosa mi regali, papà?». Capote stipa in poche frasi la goffaggine della vita adulta, il crollo delle illusioni, le crepe nell’infanzia, la verità sul mondo che si chiarisce nello sguardo di un bambino. Lo scintillio di ogni Natale che copre le nostre inadempienze e le miserie. Il disperato bisogno di essere amati. Quando torna da Sook e le confessa di avere scoperto che Babbo Natale non esiste, lei lo rassicura: «Ma certo che Babbo Natale esiste. Solo che non c’è nessuno che possa fare da solo tutto quello che deve fare lui… Per questo siamo tutti Babbo Natale. Io. Tu. Perfino tuo cugino Billy Bob». Quello che bestemmia e sputa a terra.
Il racconto si chiude con la cartolina che Buddy spedisce al padre per ringraziarlo dell’aeroplano giocattolo. «Ciao papà spero che tu stia bene io sto bene e sto imparando a pedalare il mio aeroplano così svelto che presto sarò in cielo e così tieni gli occhi aperti e sì ti voglio bene Buddy».
Attingendo dai suoi ricordi, l’autore di “A sangue freddo” si cimentò anche con il genere delle tipiche storie da leggere sotto l’albero Perché lui stesso, in fondo, si sentiva un personaggio di Dickens