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 2023  dicembre 31 Domenica calendario

La prova dimenticata del delitto di Nada Cella


GENOVA – «Marisa Bacchioni, la madre di Marco Soracco, mi disse che il figlio era innocente perché l’autrice dell’omicidio era una donna, proprio quella che si era invaghita del figlio. Sono certo che lei non si sia mai confessata totalmente con me, qualcuno le aveva detto di mantenere il più assoluto riserbo sulla vicenda... Ritengo che si riferisse ad alti prelati con cui si confidava... la famiglia Soracco aveva molti legami con la curia». È il 28 giugno del 2021 quando il frate cappuccino Lorenzo Z., spiegando di parlare al di fuori del segreto confessorio, rilascia queste dichiarazioni alla pm genovese Gabriella Dotto. Così, un quarto di secolo più tardi, si scopre che già poche ore dopo la mattina del 6 maggio del 1996, quando la 25enne Nada Cella venne massacrata nel suo ufficio di segretaria del commercialista Marco Soracco a Chiavari, c’era già una precisa, univoca, dettagliata pista su chi potesse essere l’assassino. Anzi, l’assassina. Solo un eventuale processo potrà dire se quella di Annalucia Cecere, oggi 55 anni, la donna indagata che da due anni vive con addosso il terribile marchio d’infamia, fosse davvero la pista buona, ma una serie incredibile di silenzi, omertà, segreti inconfessabili, e clamorosi errori, seppellì all’epoca la strada maestra su cui investigare.
Lo si apprende oggi, leggendo le 95 pagine con cui il gip Angela Maria Nutini ha fissato al 15 febbraio l’udienza preliminare nei confronti di Annalucia Cecere, accusata di omicidio volontario e difesa dagli avvocati Giovanni Roffo e Gabriella Martini. E poi nei confronti di Marco Soracco e della madre Marisa Bacchioni, accusati di favoreggiamento e false dichiarazioni e difesi dall’avvocato Andrea Vernazza.
Nell’ufficio di Nada Cella, in una chiazza del suo sangue, viene trovato un bottone. La polizia che indaga sul caso dedica grandi sforzi per capirne la provenienza. Ma il 28 maggio 1996 i carabinieri di Chiavari su indicazione di una vicina sospettosa effettuano, su richiesta del pm Filippo Gebbia, una perquisizione in casa di Annalucia Cecere. La giovane donna con una complessa storia famigliare alle spalle e un presente di lavori precari, conosce Soracco, i due sono usciti insieme alcune volte per andare a ballare, lei è stata almeno una volta nel suo studio e, probabilmente, spera in una relazione duratura. Ma polizia e carabinieri in quei giorni non conoscono questi risvolti perché né Soracco – pure sospettato, indagato e interrogato – né sua madre, o la zia Fausta, hanno ritenuto di doverli raccontare.
Sottovalutazioni
I carabinieri scoprono in casa di Cecere cinque bottoni che sembrano uguali a quello trovato sul luogo del delitto. Quattro militari sentiti oggi dalla pm «i marescialli Leo, Mariotta, Rosso, Scano ricordano di averesultato al ritrovamento dei bottoni». Caso risolto, pensano allora. Invece, la comparazione viene fatta solo con le foto e non ci si accorge che il bottone insanguinato è diverso perché manca una cornice di plastica. Così, scrive oggi la pm, «i bottoni vengono incredibilmente restituiti e cinque giorni dopo la posizione di Cecere archiviata». La magistrata annota un altro retroscena surreale: «Gli accertamenti su Cecere si conclusero senza che la polizia impegnata in via principale nella attività investigativa, abbia mai avuto modo di conoscere, fino ad oggi, gli elementi acquisiti in quella particolare porzione di indagine». Ma la pm Dotto non si spinge mai a criticare chi coordinava le indagini ed era in possesso di tutte le informazioni, il magistrato Filippo Gebbia. Sul collega cala un velo di pietoso silenzio.
Lo zio e gli affari sporchi
La procura – che si è avvalsa del fondamentale lavoro della criminologa Antonella Pesce Delfino consulente della famiglia di Nada Cella, assistita dall’avvocata Sabrina Franzone – ipotizza oggi che la segretaria venne uccisa per gelosia. Ma che Soracco – che sarebbe entrato in studio mentre Cecere era ancora nella stanza – e la madre non volessero che si sapesse della relazione del professionista con una donna di umili origini. E, soprattutto, che indagini approfondite portassero alla luce affari non precisamente puliti. Tutti aspetti che Soracco ha sempre negato. Oggi si scopre però che, anche se con un incredibile ritardo, un anno dopo il delitto Saverio P., zio di Nada, andò alla polizia per raccontare le confidenze della nipote. «Nada gli parlò di due problemi “il primo era relativo a delle grosse somme di denaro, contenuto in buste, che lei aveva notato girare in ufficio... il secondo riguardava le avances che riceveva in maniera pressante dal titolare”. E allo zio disse anche che il commercialista aveva compreso che lei aveva scoperto l’esistenza di giri di denaro sospetti e che conseguentemente le aveva detto che non le avrebbe più consentito di lasciare l’ufficio», scrive la pm Dotto.
Le armi del delitto
Una serie di esami avrebbe finalmente individuato «la pinzatrice e il fermacarte come possibili armi del delitto». Cecere e Soracco in questi 27 anni, nonostante alcune evidenti contraddizioni, non hanno mai ammesso alcun tipo di responsabilità.
Intercettata
Lei, l’unica sospettata, in una recente telefonata, intercettata dalla polizia, a un amica, dice: «Non c’è stato giorno da allora che non ci pensi... Quando accendo la televisione ci sono due o tre donne uccise mi viene la pelle d’oca, sudo freddo e inizio a stare male perché penso che quello è stato uno forse dei primi femminicidi dell’epoca. Questa situazione mi ha segnata mi ha provocato dei danni grossissimi a livello emotivo».