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 2023  dicembre 31 Domenica calendario

Ecco cosa può salvare il nostro mondo stretto tra due guerre

Scrivo editoriali di politica estera per ilNew York Times dal 1995 e una delle cose più importanti che ho imparato è che in questo settore ci sono stagioni buone e stagioni cattive, definite dalle grandi scelte dei protagonisti della scena internazionale.
Nel primo decennio di scelte sbagliate ne ho viste parecchie – legate soprattutto alla risposta dell’America agli attacchi dell’11 settembre – ma erano accompagnate da tante altre che offrivano più speranza: la nascita della democrazia in Russia e nell’Europa orientale, grazie alle scelte di Mikhail Gorbaciov; il processo di pace di Oslo, grazie alle scelte di Yitzhak Rabin e Yasser Arafat; l’apertura accelerata della Cina al mondo, grazie alle scelte di Deng Xiaoping; la decisione dell’India di abbracciare la globalizzazione, grazie alle scelte compiute inizialmente da Manmohan Singh; l’espansione dell’Unione Europea, l’elezione del primo presidente nero in America e l’evoluzione del Sudafrica in una democrazia multirazziale incentrata sulla riconciliazione invece che sulla ritorsione.
Tutti questi eventi erano il frutto di decisioni intelligenti prese sia dai leader che dai cittadini. C’erano addirittura segnali di un mondo che cominciava a prendere sul serio i cambiamenti climatici.
Nel loro insieme, queste scelte hanno indirizzato la politica mondiale lungo una traiettoria più positiva: la sensazione era che rispetto a prima ci fossero più persone che avevano la possibilità di realizzare fino in fondo il proprio potenziale con mezzi pacifici, che esistesse una maggiore connessione tra la gente. Era eccitante svegliarsi ogni giorno e pensare a quale di queste tendenze sostenere con i miei editoriali.
Negli ultimi anni, tuttavia, ho provato la sensazione opposta, l’impressione che gran parte del mio lavoro consista nel deplorare le scelte sbagliate dei grandi protagonisti della politica internazionale: l’inasprimento e l’aggressività della dittatura del presidente russo Vladimir Putin, culminata nella brutale invasione dell’Ucraina; il ribaltamento dell’apertura della Cina sotto Xi Jinping; l’elezione in Israele del governo più a destra nella storia dello Stato ebraico; gli effetti a cascata dei cambiamenti climatici; la situazione fuori controllo al confine Sud degli Stati Uniti; e infine (ed è la cosa probabilmente più inquietante) una deriva autoritaria non solo in Paesi europei come la Turchia, la Polonia e l’Ungheria, ma anche nello stesso Partito repubblicano in America.
Per metterla in altri termini: se penso ai tre pilastri che hanno mantenuto stabile il mondo da quando ho cominciato a fare il giornalista, nel 1978 – un’America forte determinata a difendere l’ordine liberale mondiale con l’aiuto di istituzioni multilaterali sane quali la Nato, una Cina in crescita costante utile per tenere a galla l’economia mondiale e confini prevalentemente stabili in Europa e nei Paesi in via di sviluppo – tutti e tre sono stati intaccati pesantemente dai protagonisti della scena mondiale nell’ultimo decennio. E questa cosa sta innescando una Guerra Fredda tra Cina e Stati Uniti, migrazioni di massa dal Sud al Nord del mondo e un’America che è diventata più inaffidabile che indispensabile.
Ma non è neanche metà del problema. Perché ora che tecnologie militari avanzate come i droni sonofacilmente accessibili, anche i protagonisti minori possono esercitare un potere molto maggiore, e molto più ad ampio raggio, di quanto fossero mai stati in grado di fare prima, col risultato che anche le loro scelte sbagliate possono sconvolgere il pianeta. Basti pensare alle compagnie di trasporto marittimo internazionali di tutto il mondo, costrette a deviare le loro navi su altre rotte e a pagare premi assicurativi più alti perché gli Houti, gruppi tribali yemeniti di cui fino a poco tempo fa non avevate mai sentito parlare, si sono procurati razzi e droni e hanno cominciato a colpire le navi che attraversano il Mar Rosso e il canale di Suez.
Per questo ho detto che l’invasione russa dell’Ucraina è la nostra prima vera guerra mondiale, e sempre per questo ho la sensazione che la guerra di Hamas con Israele sia, per certi versi, la nostra seconda vera guerra mondiale.
Sono conflitti combattuti sia su campi di battaglia fisici che digitali, con una portata e implicazioni enormi a livello planetario: come gli agricoltori argentini che si sono trovati in difficoltà quando all’improvviso si sono ritrovati senza i fertilizzanti che esportavano Ucraina e Russia; come i giovani utenti di TikTok in tutto il mondo che osservano, dicono la loro, protestano e boicottano catene multinazionali come Zara e McDonald’s dopo essersi infuriati per qualcosa che hanno visto su un feed di 15 secondi dalla Striscia di Gaza; come un gruppo di hacker filoisraeliani che l’altro giorno ha rivendicato il merito di aver bloccato circa il 70 per cento delle stazioni di benzina dell’Iran, presumibilmente come ritorsione per il sostegno che l’Iran fornisce a Hamas. E tantissimi altri esempi.
Nel mondo iperconnesso di oggi è addirittura possibile che la guerra per il controllo della Striscia di Gaza, che è grande circa due volte Washington, possa decidere il prossimo presidente a Washington, appunto, perché una parte dei giovani democratici sta abbandonando il presidente Joe Biden a causa del suo sostegno a Israele.
Ma prima di eccedere in pessimismo, ricordiamoci che queste scelte non sono nient’altro che questo: scelte. Non c’è nulla di inevitabile o preordinato. Le persone e i leader hanno sempre capacità di agire, e noi che osserviamo dall’esterno non dobbiamo mai unirci al coro codardo e insincero di chi dice: «Beh, non avevano scelta».
Gorbaciov, Deng, Anwar Sadat, Menachem Begin, George H. W. Bush e Volodymyr Zelensky, per faresolo qualche nome, si sono trovati di fronte a scelte strazianti, ma hanno imboccato strade che hanno portato a un mondo più prospero e sicuro, almeno per un po’ di tempo. Altri, purtroppo, hanno fatto il contrario.
Per chiudere l’anno, è attraverso questa lente delle scelte che voglio riesaminare la storia che mi tormenta, e che sono sicuro tormenta anche il resto del mondo dal 7 ottobre: la guerra tra Israele e Hamas. Non era inevitabile come alcuni vogliono farvi credere.
Ho cominciato a ragionare su questa cosa qualche settimana fa, quando sono andato a Dubai per assistere alla conferenza climatica delle Nazioni Unite. Se non ci siete mai stati, l’aeroporto di Dubai ha uno dei terminal più lunghi del mondo. E quando il mio aereo della Emirates è atterrato è andato a parcheggiarsi nei pressi di una delle estremità del terminal B e guardando fuori dall’oblò ho visto allineati, in una fila perfettamente simmetrica, quindici jet per voli a lunga percorrenza della compagnia di bandiera emiratina, che scomparivano in lontananza. E mi è venuto da pensare: qual è l’ingrediente essenziale che Dubai ha e Gaza no? Perché all’inizio tutte e due, in un certo senso, erano dei posti che sorgevano sullaconvergenza tra sabbia e mare, in snodi cruciali del pianeta.
Non è il petrolio: il petrolio ormai gioca un ruolo limitato nell’economia diversificata di Dubai. E non è la democrazia: Dubai non è una democrazia e non aspira a esserlo. Ma la gente oggi accorre a frotte per vivere qui, da tutto il mondo: la sua popolazione di 3,5 milioni di abitanti è schizzata in alto da quando è esploso il Covid. Perché? La risposta è una leadership visionaria.
Dubai ha beneficiato di due generazioni di sovrani che avevano una visione forte per gli Emirati Arabi Uniti in generale e per l’emirato di Dubai in particolare: la possibilità di essere arabi, moderni, pluralistici, globalizzati e sostenitori di un’interpretazione moderata dell’islam. La loro formula include un’apertura totale al mondo, un ruolo centrale per il libero mercato e l’istruzione, la messa al bando dell’islam politico estremista, una corruzione relativamente limitata, un contesto giuridico fondato sul primato della legge promulgato dall’alto e un impegno incessante per diversificare l’economia, reclutare talenti e sviluppare il Paese.
Ci sono un milione di cose che si possono criticare di Dubai, dai diritti dei tanti lavoratori stranieri che fanno andare avanti il Paese alle montagne russe del mercato immobiliare, dalla cementificazione spropositata alla mancanza di libertà di stampa o di riunione, per citarne solo alcune. Ma il fatto che tanti arabi e tante persone di altre nazionalità continuino a voler vivere, lavorare, divertirsi e fondare imprese qui indica che i governanti sono riusciti a trasformare questo promontorio rovente sul Golfo Persico in uno dei crocevia più prosperi del pianeta per i commerci, il turismo, i trasporti, l’innovazione, il traffico marittimo e il golf, con una skyline di grattacieli (uno alto più di 800 metri) da fare invidia a Hong Kong o a Manhattan.
E tutto è stato fatto all’ombra (e con l’invidia) di un vicino pericoloso come la Repubblica islamica dell’Iran. Quando visitai per la prima volta Dubai, nel 1980, nel porto c’erano ancora i sambuchi, le tradizionali barche da pesca in legno. Oggi la DP World, la compagnia di logistica emiratina, gestisce attività di smistamento merci e terminali portuali in ogni parte del mondo. Uno qualunque dei vicini di Dubai – il Kuwait, il Qatar, l’Oman, il Bahrein, l’Iran e l’Arabia Saudita – avrebbe potuto fare lo stesso, avendo una linea costiera analoga, ma sono stati gli Emirati a riuscirci, grazie alle scelte che hanno fatto.
Ho fatto il giro della struttura che ospitava la conferenza mondiale sul clima insieme alla sottosegretaria per la cooperazione internazionale degli Emirati Arabi Uniti, Rim al-Hashimy, che ha sovrinteso alla costruzione dell’imponente 2020 Expo City, riconvertita per ospitare l’evento. Nelle tre ore che abbiamo passato a visitare la struttura, siamo stati fermati almeno sei o sette volte da gruppetti di due o tre donne emiratine in tunica nera che mi hanno chiesto se potevo farmi da parte per un momento mentre si scattavano un selfie con Rim, o se potevo fotografarle con lei. Per loro era una rockstar, un modello da imitare, una donna esterna alla famiglia reale che ha studiato a Harvard e a Tufts e ricopre una carica direttiva all’interno dell’amministrazionepubblica.
Confrontate tutto questo con Gaza, dove i modelli da imitare oggi sono i martiri di Hamas nella loro guerra infinita contro Israele.
Tra le cose più vili e ignoranti che siano state dette a proposito di questa guerra è che Hamas non aveva altra scelta, che le sue guerre con Israele, culminate il 7 ottobre in un’orgia di massacri, nel rapimento di israeliani dai 10 mesi agli 86 anni di età e nello stupro di donne israeliane, possono in qualche modo essere giustificate come una comprensibile evasione di prigione da parte di maschi chiusi in gabbia.
Hamas è sempre stata più interessata a distruggere lo Stato ebraico che a costruire uno Stato palestinese, perché è quell’obiettivo di cancellare Israele che consente di giustificare la sua permanenza al potere a tempo indefinito, anche se Gaza ha conosciuto soltanto miseria economica da quando Hamas ha assunto il controllo della Striscia.
Non renderemmo alcun servizio a quei palestinesi che vogliono realmente e meritano di avere un loro Stato se fingessimo che non è così.
I palestinesi di Gaza sanno la verità. Sondaggi recenti riportati dall’Afp indicano che «molti abitanti di Gaza erano ostili a Hamas prima del brutale attacco del 7 ottobre contro Israele, e alcuni definivano il potere esercitato dal gruppo come una seconda occupazione».
Quando la morsa di Hamas su Gaza si allenterà, prevedo che sentiremo molte altre voci da Gaza che dicono cosa pensano realmente di Hamas, e sarà imbarazzante per gli apologeti del gruppo islamista nelle università americane.
Ma la nostra storia sulla capacità di agire e le scelte non si ferma qui. Benjamin Netanyahu, il primo ministro più longevo di Israele – 16 anni – ha fatto anche lui delle scelte. E già prima di questa guerra sono state scelte terribili, per Israele e per gli ebrei di tutto il mondo.
La lista è lunga: prima di questa guerra, Netanyahu si è attivamente impegnato per mantenere i palestinesi deboli e divisi rafforzando Hamas con miliardi di dollari dal Qatar mentre simultaneamente si dava da fare per screditare e delegittimare i moderati dell’Autorità Palestinese a Ramallah, sostenitori degli accordi di Oslo e della lotta non violenta. In questo modo, Netanyahu di fatto poteva dire a ogni presidente americano: mi piacerebbe tanto fare un accordo di pace con i palestinesi, ma sono divisi e come se non bastasse i migliori di loro non riescono a controllare la Cisgiordania e i peggiori di loro controllano Gaza; perciò, che volete da me?
Lo scopo di Netanyahu è sempre stato quello di distruggere una volta per tutte l’opzione Oslo. Da questo punto di vista, Bibi e Hamas hanno sempre avuto bisogno l’uno dell’altro: Bibi per dire agli Stati Uniti e agli israeliani che non aveva scelta e Hamas per dire ai palestinesi a Gaza e ai suoi nuovi e ingenui sostenitori in tutto il mondo che l’unica scelta dei palestinesi era la lotta armata guidata da loro.
L’unica via d’uscita da questa distruzione reciproca assicurata è introdurre in Cisgiordania una versione trasformata dell’Autorità Palestinese( o un Governo di tecnici palestinesi completamente nuovo nominato dall’Olp), in collaborazione con Stati arabi moderati come l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita. Ma quando sollevo la questione tanti israeliani mi rispondono: «Tom, non è il momento. Nessuno vuole ascoltare una cosa del genere».
E mi viene voglia di gridare: No, è proprio questo il momento. Non riescono a capirlo? Il più grande successo politico di Netanyahu è stato quello di convincere gli israeliani e il mondo che non è mai il momento giusto per parlare della corruzione morale prodotta dall’occupazione e di come costruire un partner palestinese credibile per toglierla dalle mani di Israele.
Questa guerra è così orribile, letale e dolorosa che non stupisce che così tanti palestinesi e israeliani vogliano pensare solo a sopravvivere, e non alle scelte che li hanno portati fino a qui. L’editorialista diHaaretzDahlia Scheindlin lo ha detto splendidamente in un recente saggio: «La situazione oggi è così terribile che la gente fugge dalla realtà come fugge dai missili, e si nasconde nel rifugio del suo punto cieco. Non serve a nulla puntare il dito. L’unica cosa che rimane da fare è cercare di cambiarla quella realtà».