Corriere della Sera, 31 dicembre 2023
Intervista a Chiambretti
Piero Chiambretti, il suo primo ricordo della tv?
«L’investimento che mia madre fece per acquistare un televisore, con mezzo palazzo che scendeva per vedere il film del lunedì sera. Avevo 10 anni e assomigliava alla condivisione di oggi con i social, peccato fosse un baraccone televisivo più grande del salotto dove era stato infilato».
Il secondo momento di gloria?
«Quando il televisore si sostituì alla baby sitter che in realtà all’epoca non era prevista; piuttosto c’era una mia bisnonna 80enne a cui ero io che facevo da badante. Il televisore diventò il mio accompagnatore fisso; tornavo da scuola e mi attaccavo allo schermo con mille puntini e vedevo tutto quello che passava».
A Torino, dove lei è cresciuto, c’era il centro di produzione Rai che era considerato un fiore all’occhiello.
«Era lo studio più grande d’Italia, era un gioiello, ci andavamo spesso in gita con la classe perché era all’avanguardia anche se rispetto a oggi la tecnologia di allora era quella di Neanderthal, ma la cosa impressionante era che tutti i cameraman, tutti, indossavano il camice bianco: sembrava di entrare in sala operatoria, invece andavi sul set del Conte di Montecristo».
Poi arrivò il colore.
«Da noi prima. Mia madre comprò una plastica trasparente che si appoggiava allo schermo del televisore, era colorata a strisce e vedevo i tg in arcobaleno: la guerra in Vietnam sembrava un luna park».
Ha iniziato nelle tv locali.
I miei inizi? Nella miglior emittente locale, dove fui cacciato Così andai nella peggiore, dove potevo
fare quel che volevo
«Dopo aver scelto la migliore della città da cui fui ovviamente cacciato, scelsi la peggiore – TeleManila – così potevo fare quello che mi pareva. C’era una porta carraia che dava sulla strada, la feci aprire e feci allungare l’unico cavo dell’unica telecamera fuori dalla porta: così ho scoperto la tv verità. Lì ho anche capito che il mezzo televisivo poteva diventare un’arma, perché chi ha il microfono vince».
Quando arrivò Guglielmi alla terza rete per lei fu la svolta.
«Praticamente si chiuse il cerchio, perché a TeleManila avevo già provato tutti gli schemi possibili per raccontare la realtà in modo bizzarro, originale o provocatorio».
Come sta oggi la tv?
«Non ha più la centralità di caminetto elettronico che aveva 20/30 anni fa, gli ascolti sono fortemente diminuiti, con due milioni di spettatori un tempo ti mandavano a casa, oggi ti fanno Papa. La grande forza della tv è quella della condivisione contemporanea in diretta di diversi milioni di spettatori: succede con la grande partita, la grande tragedia, il grande spettacolo. La tv deve puntare su questa unicità».
Ci sono tanti mediocri in tv oggi, come è possibile che lei sia senza contratto?
«I contratti scadono e io non mi ritengo una vittima, ma un privilegiato. So che Mediaset non ha mai nascosto l’interesse nei miei confronti, ma visto che è l’anno della grande fuga di cervelli dalla Rai, io – che non sono un cervello e mi piace andare al contrario – sogno di rientrare dove altri se sono andati per diversi motivi, credo più che altro commerciali».
Che periodo è per lei?
«Abbastanza eccitante, perché quando non sai cosa fare è come essere nel sabato del villaggio: non sai come sarà la domenica ma ti puoi aspettare di tutto. Solo che quello di oggi è il villaggio globale, quindi un filo più complicato».