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 2023  dicembre 31 Domenica calendario

Intervista a Zucchero

«Per la depressione volevo farla finita, salivo sul palco grazie alla grappa, le ragazze mi cercavano ma facevo brutta figura…». Zucchero racconta i trionfi e i dolori di una vita: Mogol e Bocelli, Vasco e Pavarotti, Mick Jagger e Fred Bongusto. «Pippo? Era davvero un amico che voleva sedurre mia moglie, e temo ci sia riuscito. Mai stato comunista».Perché Zucchero?
«Mi chiamava così la mia maestra: introverso, sempre all’ultimo banco, non parlavo mai; anche se con qualche compagno siamo amici ancora adesso. Ero un bambino molto educato: vengo da una famiglia di contadini, guai se non ti comportavi bene».
Come si chiamavano i suoi genitori?
«Rina e Giuseppe, detto Pino. Erano mezzadri, sotto padrone, a Roncocesi. Nonno Roberto lo chiamavano Cannella, immagino perché era alto e magro: nella campagna reggiana non giravano droghe e io stesso mi sono fermato alla prima canna, sono stato troppo male... Nonno lavorava in un caseificio, dove i contadini portavano il latte la sera. Quando andò in pensione, papà prese il suo posto. E io lo aiutavo».
Come?
«Prima di andare a scuola dovevo accendere le caldaie. Dalla forma appena uscita mio padre mi dava il tosone, una roba gommosa che sa di formaggio. Così andavo in classe con questo sacchettino, col tosone, che era la mia merenda».
Perché vi trasferiste a Forte dei Marmi?
«Il mestiere di papà era duro. Un giorno cadde dalla scala su cui era salito per far stagionare il parmigiano sugli scaffali. Tornò con la testa avvolta in una benda macchiata di sangue, quando lo vidi svenni per l’emozione. Lo chiamò un amico da Forte dei Marmi: “Pino vieni qua, che con i formaggi e i salumi emiliani si fanno i soldi”. Avevo 11 anni. Il viaggio sulla Cisa vecchia fu epico».
Come andò?
«Partimmo su un camioncino. Papà, mamma e il mio fratellino Lauro davanti; io sul cassone a tenere le funi, a controllare che non cadessero i mobili. A Forte dei Marmi ci avevano promesso un magazzino, che però non c’era più: al babbo non avevano dato la licenza, non volevano concorrenti. Eravamo disperati, non sapevamo neppure dove andare a dormire, perché pensavamo di dormire nel magazzino: ci ospitò l’amico, per farsi perdonare. Papà non voleva tornare sconfitto e si accontentò di un negozietto di alimentari. D’estate diventavamo matti: i miei in negozio, io in giro con una bicicletta pesante fino a sera per le consegne, colazioni pranzi merende cene».
Un rider.
«L’inverno era di una tristezza infinita. Facevamo 14-15 mila lire: di incasso, non di guadagno. Ogni mattina tagliavo la prima fetta di ogni salume, per far vedere che non era fermo da giorni».
E la musica?
«A 9 anni a Reggio avevamo già un gruppetto, provavamo in canonica la domenica pomeriggio con il permesso del prete. Facevo il chierichetto, in cambio mi lasciava suonare l’organo».
Musica sacra?
«A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum».
I morti di Reggio Emilia del 1960 se li ricorda?
«No, non avevo ancora cinque anni. Ma la memoria della Resistenza era molto viva. Feci la comparsa in un film con Volonté e la Gravina, ero una mascotte partigiana. Sono sempre andato nella casa dei fratelli Cervi, un nipote si chiama Adelmo come me».
La sua canzone Partigiano reggiano ha ispirato un murale sull’autostrada.
«È dedicato ai quattro fratelli Manfredi e ai due Miselli, fucilati dai fascisti con i loro padri. Lo volevano cancellare, dicevano che distraeva gli automobilisti. Ci siamo un po’ battuti, l’hanno lasciato».
Qual è il suo primo ricordo?
«Il carretto dei ghiaccioli, che chiamavamo biff. Io volevo il biff ma costava venti lire, papà non me lo voleva comprare; piuttosto lo faceva lui con il ghiaccio del caseificio, e me lo dava così, in mano. Un mio amico mi rubò il biff, io lo centrai con un sassolino in testa».
Primo voto?
«Ho votato solo un paio di volte, l’ultima per Prodi. Ogni tanto su Facebook scrivono che sono un vecchio comunista; ma non è vero. Comunista non sono mai stato. Certo, sono di sinistra, vengo da una famiglia rossa. Mio zio zitello nella sua cameretta teneva tutti i libri di Marx, Lenin, Mao».
Come si chiamava lo zio?
«Enzo, detto Guerra. Era stato nei lager, viveva con una scheggia di granata vicino al cuore. Sono cresciuto con lui, avevamo la passione dei moschito, i motorini: li prendevamo dagli sfattini, gli sfasciacarrozze, e li smontavamo. Fu zio Guerra a costruirmi la prima chitarra, le corde erano fatte con il filo da pesca. Non suonava, non emetteva nessuna nota, ma io mi divertivo tantissimo».
«Oh avanti popolo con la Lambretta rossa...» è ispirato a suo zio?
«Sì. Mangiava riso in bianco tutte le sere, perché voleva mangiare come Mao. Io mi dicevo: prima o poi gli verrà la nausea. Invece niente, sempre riso. Passava i pomeriggi su una panchina a litigare con il prete, don Giovanni detto don Tagliatella. Rivali e amici, come Peppone e don Camillo. La domenica mi diceva: “Delmo, vai a chiamare il prete, che è solo, portalo a pranzo da noi”. Sono morti negli stessi giorni, prima il prete poi lo zio».
Era rimasto zitello?
«No, si era sposato con Enrica, zia Rica: era un donnone di campagna, rustica, irsuta, ma molto dolce. E poi nel portico della sua cascina c’erano tutti i salumi appesi: un profumo... Una coppa così non l’ho mai più sentita».
E Diamante chi era?
«La moglie di nonno Cannella, quindi la mamma di papà e di zio Guerra. Nonna Diamante era di Cavriago, il paese di Orietta Berti, di cui era lontana parente. Una signorina non tanto alta, col naso a patatina e gli occhi azzurri. Sembrava già vecchia, perché le donne erano tutte vestite di nero. Il testo della canzone l’ha scritto De Gregori, ho solo cambiato un verso: “Aspetterò che aprano i fiorai...”. Mi dissi: non è da me, non è credibile. Così è diventato “aspetterò che aprano i vinai”».
La musica quando comincia?
«Io nasco come musicista. Ho cominciato a scrivere i miei testi per reazione».
Reazione?
«La mia casa discografica mi mise accanto Mogol. A Sanremo però non portai un suo brano ma quello di Alberto Salerno, Donne».
Donne, du du du...
«Ai concerti non la canto quasi mai, perché mi vergogno del du du du».
È una canzone molto bella.
«Ma Mogol si arrabbiò moltissimo. Sbraitava: “Voi non capite un cazzo!”. Poi, rivolto a me: “Tu dove credi di andare? Non hai la faccia giusta, non hai la cazzimma!”. Poi, rivolto ai produttori: “Venite dal dottore quando il paziente è già in fin di vita!”. In effetti avevo già fatto due Festival, ma non era successo niente, e la Polygram aveva deciso di buttarmi fuori. Sentii il direttore generale dire al direttore artistico: ho visto Zucchero seduto in sala d’attesa, ma che ci fa ancora qui? Quello non funzionerà mai».
E lei?
«Entrai dal direttore artistico, che mi fece: “Guarda Zucchero, se vuoi ti teniamo come autore, ti diamo qualcosina, ma non possiamo fare di più”. Non ci penso nemmeno, risposi, e me ne andai. Ero distrutto».
Invece?
«Nei corridoi incrociai il vicedirettore, un ragazzino appena arrivato. Mi disse: vatti a fare un giro, torna tra un paio d’ore. Tornai. Aveva strappato 40 milioni per un disco, con un’avvertenza: questa è l’ultima spiaggia. E qui comincia una serie di clamorosi colpi di fortuna».
Quali?
«Incontrai Corrado Rustici, grande produttore, che però viveva a San Francisco; e io i soldi per andare a San Francisco non li avevo. Ma un amico, che aveva un negozio di jeans, aveva vinto un viaggio premio a San Francisco per due persone. Venne da me a dirmi: “Delmo, so che tu vorresti andare in America; dammi 500 mila lire e vai tu”. Ma io non le ho, 500 mila lire. “Pazienza, quando le avrai me le darai”. Così sono partito per la California, e in dieci giorni abbiamo fatto l’album Zucchero & The Randy Jackson Band».
Testi di Mogol.
«Sì, ma li fece firmare al figlio Cheope. Un’altra volta scrisse una canzone su una mia musica, però mi disse: “Questa la do a Vasco Rossi, tu non la reggi”. Ma come, è mia, e la dai a Vasco? Allora Mogol mi spiegò che il mondo della musica era come un tirassegno: “Nel cerchio più esterno c’è la robetta; in quello più interno ci sono i cantautori; al centro, quello più piccolo, c’è solo Battisti. Fuori, tutto attorno, c’è il mare di merda. Indovina tu dove sei? Tu sei nel mare di merda”. Così l’anno dopo, per reazione, scrissi “Rispetto”. Dedicata a Mogol e alla mia ex moglie Angela».
Ci racconti della sua ex moglie Angela.
«Mi ha massacrato. Però a suo modo è stata una fonte di ispirazione. Ora vorrebbe i diritti di autore... È stato un grande amore. Ed è stato un inferno».
Come andò?
«Era bellissima, ma a colpirmi fu la malinconia dei suoi occhi. Non sono mai riuscito a capirla, neanche adesso. Impenetrabile. Durissima. Mi sono sposato a 23 anni, lei era ancora più giovane. Mi aveva lasciato il giorno prima che partissi per il Forte Village, in Sardegna, dove dovevo suonare per un mese. Le telefonavo e non rispondeva mai. Al ritorno con la 128 scassata di mio padre andai ad aspettarla fuori dal negozio dove lavorava, e le chiesi di sposarmi. Lei rispose di sì. Fino a quando una notte mi disse: “Ti lascio, non ti amo più”. Ma non so se mi abbia mai amato davvero, di sicuro “ti amo” non me l’ha mai detto, e neanche “ti voglio bene”. Mai. E la mia presunzione era farla sorridere, renderla felice».
In che modo?
«Volevo prenderle una casa vicino a sua madre, e mi indebitai di 500 milioni. Così scivolai nella depressione. Non sapevo dove prendere il denaro, dovevo pagare 50 milioni ogni sei mesi; la prima rata me l’aveva garantita un impresario, in cambio di una tournée al Sud. Vado a Roma a ritirare i soldi, e mi dice che non ci sono. Mancano quattro giorni alla scadenza, se non pago ci portano via la casa. E nel frattempo era arrivata la seconda figlia».
Come se l’è cavata?
«Telefono a tutti i produttori con cui ho lavorato: quello di Viareggio, quello di Bologna, quello del Piemonte... A tutti offro tre anni di esclusiva, in cambio di 50 milioni. Niente, al massimo me ne danno 20. Allora chiamo il manager dei Matia Bazar, Paolo Cattaneo, che aveva un ufficetto e mi aveva detto: Delmo, quando sei solo, hai freddo, piove, vieni a trovarmi. Vado a trovarlo e lui mi mette in contatto con un musicista che aveva suonato con Paoli e ora voleva diventare produttore: Michele Torpedine. Penso: Torpedine... già il nome non mi piace».
Invece fu la sua fortuna.
«Mi propone di fare il contratto subito. Ok, rispondo, a patto che lo firmiamo dal mio avvocato».
Chi era il suo avvocato?
«Ovviamente non avevo un avvocato. Un amico mi trovò un matrimonialista, uno che di solito faceva divorzi. Lui capì e si presentò in doppiopetto, sembrava un grande agente. Torpedine pagò. E sparì».
Come sparì?
«Mi lasciò il numero di una sua amica che l’avrebbe rintracciato. Io telefonavo, e non lo rintracciavo mai. Era l’estate del 1986, scalpitavo, e lui mi disse: “Quest’anno stai fermo, e scrivi”. Come fermo? “Fermo”. Così scrissi».
Il 1987 fu il suo anno. Con le mani, Pippo, Solo una sana e consapevole libidine... Solo con Vasco si era visto un boom così.
«Invece ero depresso. Il mio matrimonio stava finendo».
Pippo è davvero un amico che ci provava con sua moglie?
«Sì. E temo ci sia anche riuscito».
Sarà stato assediato dalle ragazze dopo i concerti.
«Non aspettavano i concerti, venivano direttamente in albergo, a casa. Alcune erano bellissime, eppure ho rimediato parecchie brutte figure. Non riuscivo a combinare niente. È la depressione».
Così tornò a casa dai suoi.
«Papà non aveva ancora capito bene cosa facevo. Tornavo alle 4 del mattino dai concerti e lui all’alba mi svegliava: Delmo, vieni a darmi una mano nei campi. Arrivò uno di Tele Reggio a intervistarlo: le piace la musica di suo figlio? E lui: no, a me piace la mazurca. Mi ritirai in una casetta di legno sul mare, con una tastiera, un registratore e un cane, Olmo. Me lo rubarono».
E lei scrisse Miserere.
«Ero davvero depresso. Leggevo Bukowski perché almeno lui stava peggio di me. Scrivo Miserere e penso che per cantarla ci vuole un tenore».
Pavarotti.
«Mi avvisano che non accetterà mai, che lui ’ste cose non le fa. Allora convoco a Modena sei tenori, tra cui Bocelli. Scelgo subito lui, perché aveva swing. Poi Torpedine e il direttore della PolyGram Record vanno a Philadelphia da Pavarotti, che dice: io ’ste cose non le faccio, però questo tenore è bravo, fate la canzone con lui, no?».
Lei però non si arrende.
«Telefono a Pavarotti a casa a Modena, e mi risponde sua figlia, che è una mia fan. Così Luciano mi fa, con la voce impostata: “Ciccio, sei bravo, ti seguo, vieni domani a casa mia, che pranziamo e giochiamo a briscola!”».
Come va il pranzo?
«Io preparo tre musicassette di Miserere, cantata da Bocelli. Era febbraio, c’era il camino acceso. Parliamo di cavalli, di tutto, ma non affrontiamo l’argomento. Verso le 4 tento il colpo, ma Pavarotti mi dice che non può. E io: questa canzone la puoi cantare solo tu; se non vuoi cantarla, io la brucio. E la butto nel caminetto. Luciano ci rimane malissimo: “Tu sei matto! E ora come fai a ricordarla?”. “Vedrai che me la ricordo...”. Così accetta. Mi mostra l’agenda e nell’unico giorno dell’anno rimasto libero, il 19 agosto, segna a matita: Zucchero. Pavarotti&Friends, tutto il lato pop di Luciano, iniziò così».
La sua musica Zucchero è diversa da quella degli altri cantautori.
«Perché me ne sono andato dall’Emilia, che è più cantautorale. In Versilia mi attaccavo al jukebox aspettando che qualcuno mettesse un disco, perché non avevo soldi. E scoprii il rhythm&blues: Otis Redding, Wilson Pickett, Aretha Franklin. Così mi innamorai di quella musica. Poi il 3 settembre per la fiera di san Giorgio arrivavano i Calcinculo».
Le giostre.
«Suonavano il beat italiano: Morandi, Rita Pavone. Io amavo i Nomadi e l’Equipe 84. Più tardi arrivarono anche i Rolling Stones».
Lei ha suonato con Mick Jagger.
«Due volte. Abbiamo anche festeggiato il suo compleanno insieme, al tempo del Covid, a Castagneto Carducci; e ho fatto la mia solita figura. Quando sono emozionato non so cosa dire... Mick era ospite del conte della Gherardesca, quando è arrivato gli ho detto: “I’ve heard about you”, ho sentito parlare di te. Volevo essere simpatico, volevo sdrammatizzare... E lui mi fa: anch’io. Così mi mise subito a mio agio. Mi chiesero di cantare qualcosa. Io gli dedicai “Con le mie lacrime”, l’unico brano che gli Stones hanno inciso in italiano, e Jagger cantò con me. Poi feci un canzone brasiliana, Ave Maria no Morro, struggente, bellissima. Lui si è commosso. E mi ha chiesto: canta Senza Madonna, che sarebbe Senza una donna. La ricordava, in Inghilterra è stata al primo posto...».
Il successo dopo la gavetta.
«Per la pagnotta ho fatto di tutto, anche una canzone per lo Zecchino d’oro: “La foca Teresa va a fare la spesa, poi torna a casa e gioca con te”. Alla Bussola facevo da spalla a Fred Bongusto, diventammo amici. Un giorno gli dissi che avevo scritto una canzone per lui, “Tutto di te”. Bongusto la incise, e per me fu un regalo, un’emozione grandissima. Fred era forte, sapete? “Una rotonda sul mare, il nostro disco che suona...» (Zucchero si produce in un’imitazione perfetta di Fred Bongusto).
Poi Ravera la chiamò a Castrocaro.
«Col mio gruppo giravo già le hall più importanti del Nord: Bussoladomani, Capannina e lo Sporting di Santhià, un discotecone enorme. Però avevo moglie e una figlia piccola. Così andai a Castrocaro, a cantare la canzoncina. E vinsi».
Delmo, cosa sentiva quando era depresso?
«Volevo farmi fuori. Stavo malissimo. Attacchi di panico fortissimi, cose che non auguro a nessuno. Prendevo il Prozac ma non sentivo più niente. Dopo “Oro incenso e birra” mi chiamarono prima al Freddie Mercury Tribute, poi Sting, insomma mi sono capitate cose bellissime, ma non me le sono godute. Ero al massimo del successo e non volevo più salire sul palco, non volevo fare la tournée di Miserere: sedici concerti negli stadi».
Come ci è riuscito?
«Mi piazzarono dietro uno strizzacervelli. Sono stato l’unico rocker ad andare in tournée con lo psichiatra al seguito. Mi dissero: “Lui ti dà la pasticca, e tu suoni”. Se no? “Se no ti ricoveriamo all’ospedale psichiatrico di Pisa, e devi restarci un mese, perché se annulliamo la tournée faranno i controlli”».
E lei?
«Preparo la valigetta con il dentifricio e il pigiama. Arrivo in ospedale, e vedo una vecchietta incazzatissima che prende a borsettate un infermiere, poi un altro che urla... Così fuggo e torno a casa».
E la tournée?
«Venne a trovarmi un amico a cena. Continuava a versarmi una grappetta di Bassano che mi avevano regalato, la scolammo tutta. Alle 4 del mattino dissi: adesso potrei salire sul palco. “Ma sei ubriaco”. Così partii per il primo concerto, con l’accordo che alle 5 del pomeriggio il mio amico avrebbe predisposto il rituale del grappino».
Funzionò?
«Alla terza canzone mi prese l’attacco di panico e volevo scappare. O gettavo la spugna, o mi violentavo. Mi violentai. Cantavo per inerzia. Una parte del cervello si ricordava le parole e cantava, l’altra diceva: che ci faccio qui? Una notte sognai l’intera platea che mi aspettava con le fauci aperte, per sbranarmi. Ci ho messo sei anni a uscirne. Mi sono ricostruito pezzo a pezzo».