Domenicale, 31 dicembre 2023
Ritratti di un’altra Italia
Sono “ritratti in piedi” quelli che accompagnano la galleria del libro di Alberto Saibene, appena pubblicato dalle Edizioni Casagrande: Storie di un’altra Italia, Incontri e ritratti, nell’inserto iconografico realizzato da Giovanna Borgese, ma – tranne Stajano e Turoldo, due militanti di una religione della libertà dallo sguardo diritto – non guardano mai in macchina.
Giulio Einaudi nel 1980, prima della bancarotta del 1983, bianco dalla testa all’impermeabile, assiso in un coro ligneo; Raffaele Mattioli, presidenziale nel salotto della sua casa di Milano a poca distanza dalla sede della Comit; Roberto Cerati, lo storico Presidente dell’Einaudi dal 1999 al 2013, mobile e inquieto nel giardino del castello di Verduno, e ancora Tullio De Mauro, stagliato sul fondo come un busto romano; Franco Fortini e Vittorio Sereni, mentre discutono nei primi anni 80 all’inaugurazione della libreria Garzanti a Milano; Inge Feltrinelli, vagamente hippie, a una festa nel giardino di Villadeati della metà degli anni 80, e poi Umberto Eco che di slancio alza un calice, Gianni Antonini, philologus additus auctori e factotum della storica collana Ricciardi, in toga a ricevere la laurea honoris causa dell’Università di Pavia, o Antonio Cederna, l’intellettuale che ha fatto della lotta per la salvaguardia del paesaggio italiano un pilastro dell’educazione democratica del dopoguerra, ripreso nel suo studio di fronte a una cartina dei Berninapass. Dante Isella e Attilio Bertolucci sul lago di Luino, nel 1991, a un convegno dedicato a Vittorio Sereni. E guardano fuori dall’obiettivo anche Natalia e Carlo Ginzburg, ritratti in copertina, in una ripresa dall’alto che enfatizza l’energia con cui – chi ancora potrebbe essere rappresentato così? – aprono uno di quegli enormi fogli di giornale che si chiamavano “lenzuoli”.
Perché proprio loro? E perché affidare a questi ritratti l’ambiziosa ricostruzione di un’altra Italia? Alberto Saibene – editore, cineasta, saggista d’antan (su Facebook esiste una pagina creata “aspettando che Alberto Saibene si iscriva a Facebook”…), che indaga la storia del Novecento con la minuzia del filologo e l’auscultazione dell’etnografo, lo dichiara espressamente, raccontando uno dei tanti aneddoti della sua famiglia (Hoepli). Siamo nel settembre 1988, a Ferrara, e Saibene accompagna Ettore Mo a ritirare il Premio Estense, vinto con La peste, la fame, la guerra, pubblicato dallo “zio Ulrico”: «Mo, un uomo minuto, molto simpatico, con una moglie inglese e la modestia di chi non ha bisogno di dimostrare nulla, vinse il premio, ma fu soprattutto un dopocena in albergo che mi diede la misura di cosa significasse ascoltare una testimonianza piuttosto che leggerla». E così Saibene si trova ad ascoltare le memorie di Mo, Soldati, Bo, Luzi, Afeltra, a parlare(sparlare), di letteratura e politica, di Curzio Malaparte e Anna Achmatova, e «da allora la voglia di ascoltare le storie di un passato che non ho conosciuto direttamente è diventata una vocazione».
Domenico Scarpa lo ha definito, riprendendo un’espressione di Primo Levi, un “mnemagogo”, un “suscitatore di memorie”, ma qui sembra piuttosto un cartografo, che ricostruisce “paesaggi con figure” (una sorta di “Storia del paesaggio culturale italiano”, alla maniera di Emilio Sereni), di lato, grazie alla visione scorciata di chi non si mette di fronte all’obiettivo, e di chi non ha bisogno di mettersi di fronte al lettore, ma lo accompagna, discretamente (e ironicamente), nel piacere della memoria.
Tutti guardano un altrove che ci costringe a pensare che esista un altrove, fuori dall’obiettivo.
Come Natalia e Carlo, la «famiglia che ha rappresentato nel modo più degno la nostra cultura». Hanno tracciato una strada che vale la pena di ricostruire e far conoscere, sempre a lato dell’interlocutore, dalla prospettiva scorciata di chi fa storiografia militante con le carte, le parole, la memoria. Con una tensione morale che attraversa tutte le pagine di questo libro; la consapevolezza – che emerge dall’intervista che conclude il volume, con Federico (lo “zio Pici”) Magnifico, compagno di studi di Maurizio Mattioli e luogotenente della Comit in Lombardia e Calabria – che per la ricostruzione sarebbe stato necessario lavorare, sì (il senso del dovere “forse eccessivo” implicito nella formazione di questa classe dirigente), ma soprattutto studiare: «ho sempre considerato la cultura un elemento necessario e complementare alle attività di lavoro: si può lavorare bene solo se si inquadra l’azione in un contesto storico, filosofico, spirituale che comprenda tutta la storia dell’umanità». Una tensione anche, in certo senso, religiosa.
Come nel “lascito morale” di Piergiorgio Bellocchio, uno dei ritratti più intensi, che temerariamente ribalta, da ateo, la formula di Bonhoeffer: “vivere come se Dio ci fosse…” in quella, ugualmente “onesta” per un non credente: “vivere come se Dio non ci fosse”. Che altro non è che la versione spirituale di ciò che Dante Isella, uno dei maestri di filologia di Antonini (e di Saibene), riconosceva nella generazione dei Parini, dei Verri, dei Beccaria: lo slancio che aveva portato «un’altra Italia», due secoli prima, con un poemetto in endecasillabi, un giornale di «cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità» e un libretto scritto «perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino», ma «pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi», a costruire una società nuova: «vivere come se la società ideale che si ha in mente già esista, perché un giorno possa esistere davvero».
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Alberto Saibene
Storie di un’altra Italia.
Incontri e ritratti
Edizioni Casagrande,
pagg. 266, € 24