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 2023  dicembre 31 Domenica calendario

Come il giovane de Broglie scoprì che l’elettrone è un’onda

Tra il 1923 e il 1927 un gigantesco terremoto scosse il mondo della scienza e del pensiero. Lo spettro dei quanti, che si aggirava per l’Europa da più di due decenni – da quando il mite e conservatore Max Planck, con una mossa disperata, aveva introdotto per la prima volta la discontinuità nella natura –, si materializzò, nell’arco di un lustro, in una rivoluzione travolgente, guidata da uno stuolo di fisici geniali, alcuni poco più che ragazzi.
C’erano state naturalmente delle avvisaglie. Nel 1905, in quello che considerava il lavoro più innovativo del suo annus mirabilis, Albert Einstein aveva proposto l’idea che la luce – normalmente concepita come onda – fosse fatta di quanti localizzati e di energia definita (chiamati poi fotoni). Qualche anno dopo, nel 1913, grazie a una sfolgorante intuizione di Niels Bohr, il concetto di quanto era transitato dal mondo della radiazione a quello della materia, entrando nella descrizione della struttura atomica. Nonostante queste premesse, però, la teoria dei quanti era rimasta per un quarto di secolo un miscuglio di idee promettenti ma contraddittorie.
La vera e propria rivoluzione scoppiò negli anni 20, ed ebbe come protagonista iniziale – fatto inconsueto per una rivoluzione – un giovane aristocratico: il principe francese Louis-Victor de Broglie. Rampollo di un’antica famiglia della nobiltà piemontese (i Broglia) trapiantata in Francia nel Seicento, il giovane Louis, dopo un diploma in storia, aveva deciso di dedicarsi alla fisica, sulla scia del fratello maggiore Maurice, fisico sperimentale, e della lettura delle opere epistemologiche di Henri Poincaré. Le ricerche che lo resero celebre – e che gli valsero il premio Nobel nel 1929 – furono quelle svolte per il conseguimento del dottorato alla Sorbona, anticipate in una serie di lavori pubblicati nell’autunno del 1923. In questi articoli, il primo dei quali si intitolava significativamente Ondes et quanta (Onde e quanti), de Broglie ipotizzava che a ogni particella fosse associata un’onda, di lunghezza d’onda inversamente proporzionale alla velocità della particella. Racconterà in seguito che l’ispirazione gli era venuta riflettendo sul fatto che la quantizzazione degli atomi introduceva, per individuare le orbite degli elettroni, dei numeri interi, e gli unici altri fenomeni in cui i numeri interi comparivano in fisica erano quelli ondulatori (le analogie possono essere un potente strumento di scoperta in mano a un fisico perspicace).
Il punto di partenza fondamentale del ragionamento di de Broglie era la teoria dei quanti di luce di Einstein. Assumendo la sua validità (cosa niente affatto scontata – il grande Bohr, per esempio, non ci credeva), il giovane principe propose di capovolgere la prospettiva: se le onde luminose sono fatte di corpuscoli quantistici, perché non immaginare che un corpuscolo si comporti come un’onda?
L’idea era semplicemente inaudita. Come si può pensare che un elettrone, un granello infinitesimale di materia che sta in un determinato punto, abbia qualcosa a che spartire con un’onda, che è invece diffusa su tutto lo spazio? Ma de Broglie, dalla sua, aveva delle buone ragioni teoriche, basate sull’altra grande invenzione einsteiniana, la relatività. Inoltre, la sua ipotesi suggeriva immediatamente una modalità di verifica: per stabilire se un oggetto si comporta come un’onda, infatti, basta vedere se produce effetti di interferenza e di diffrazione. «Un fascio di elettroni che attraversasse un’apertura molto piccola – scrive de Broglie – presenterebbe dei fenomeni di diffrazione. È in questo ambito che si dovranno forse cercare delle conferme sperimentali delle nostre idee». A compiere l’esperimento – usando dei cristalli come reticoli diffrattivi – furono, nel 1927, Davisson e Germer negli Stati Uniti, e G.P. Thomson in Inghilterra, e i risultati diedero ragione a de Broglie: gli elettroni non si comportavano come microscopiche palline, ma formavano sullo schermo una successione di zone di maggiore e minore addensamento, come onde che interferiscono. E la loro lunghezza d’onda era legata alla velocità proprio dalla relazione proposta da de Broglie (in cui compariva la costante di Planck, la celebre h).
È curioso notare come G.P. Thomson – che ebbe poi il Nobel nel 1937 – fosse figlio di quel J.J. Thomson che aveva scoperto l’elettrone, determinandone le proprietà corpuscolari, e che per questo era stato insignito del Nobel nel 1906. I due, dunque, furono premiati, a trent’anni di distanza, l’uno per aver mostrato che l’elettrone è una particella, l’altro per aver mostrato che è un’onda: nella fisica classica sarebbe stata una palese e imbarazzante contraddizione, ma nella fisica quantistica – per quanto strano possa sembrare – l’elettrone è davvero entrambe le cose.
Mai, nella storia della fisica, una tesi di dottorato fu importante quanto quella di Louis-Victor de Broglie. L’eminente fisico Paul Langevin, che era nella commissione giudicatrice, ne fece avere una copia all’amico Einstein, e questi comprese subito la sua straordinaria rilevanza. Il giovane de Broglie – disse – «ha sollevato un angolo del grande velo». Sarebbe toccato ad altri brillanti fisici, nei quattro anni successivi, scoprire interamente quel velo, portando a compimento la rivoluzione quantistica.
vincenzo.barone@uniupo.it