Corriere della Sera, 31 dicembre 2023
3 gennaio 1954: nasce la tv italiana
Era una domenica mattina di settant’anni fa. Gli ingegneri Alessandro Banfi e Sergio Bortolotti, i «padri» della tv italiana, si agitavano non poco. A Torino, il trasmettitore del Colle dell’Eremo stava funzionando bene, così come quello di Corso Sempione a Milano (aveva sostituito quello dell’ex Torre Littoria del Parco), e quello di Monte Mario a Roma. Le apparecchiature venivano dall’America, dalla General Electric. Però bisognava aspettare fino alle ore 11, al momento dell’inaugurazione, per sciogliere ogni dubbio. In realtà, i due tecnici aspettavano fin dal 1929, quando a Milano, negli studi dell’Uri (Unione Radiofonica Italiana, la futura Eiar, Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) in corso Italia 13, avevano tentato i primi esperimenti di trasmissione a distanza dell’immagine. Nel dopoguerra, a Torino come a Milano, c’era un grande fervore sperimentale attorno a questo nuovo apparecchio di trasmissione: bisognava formare i tecnici, gli artisti, i dirigenti. E pensare a cosa trasmettere.
Alle 11 in punto del 3 gennaio 1954, con tre cerimonie inaugurali (Milano, Torino e Roma), iniziano ufficialmente le trasmissioni della Rai, Radio Audizioni Italiane, la società concessionaria del servizio pubblico radiofonico e televisivo in Italia. Tocca all’annunciatrice Fulvia Colombo pronunciare le prime parole: «La Rai, Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive». Quel giorno gli abbonati privati sono 90, dopo un mese 24 mila, dopo un anno quasi 90 mila.
Nel 1954, l’Italia era un Paese povero, gravato da un alto tasso di analfabetismo, viveva in condizioni igieniche precarie, usava il treno come mezzo principale di trasporto: la chiamata al servizio di leva e il viaggio di nozze erano per molte persone le uniche occasioni di spostarsi dal proprio luogo di nascita. E siccome un apparecchio televisivo costava più di 215.000 lire (quando un buon stipendio «statale» non superava le 80 mila), l’avvento della tv fu all’inizio un evento per pochi fortunati. Grazie al cielo, c’erano i bar, le osterie, le società di mutuo soccorso, gli oratori che trasformarono la visione in un’occasione di incontro sociale. Di solito, il televisore era posto su un trespolo e una scritta minacciosa turbava la visione dei più distratti: «Consumazione obbligatoria», sovrastata da un’altra che intimava «Non toccate la televisione». La televisione, non il televisore.
Alla nascita, la tv era in mano a un establishment di stampo massonico-liberale (c’è d’aggiungere che quasi tutti i quadri dell’Eiar erano stati incorporati nella Rai, senza andare troppo per il sottile) soppiantato quasi subito, dopo aspra lotta, da un ceto dirigente cattolico. Era una tv che rispecchiava lo spirito di una borghesia medio-alta e si rivolgeva a quella stessa borghesia, la sola in grado di acquistare il costoso apparecchio (di lì a pochissimo, però, grazie allo strepitoso successo di «Lascia o raddoppia?», nei bar e nei cinema la tv si sarebbe affermata come lo strumento principe della cultura popolare). Per intanto, la fascinazione del mezzo attirava dalle università le menti migliori e dava inizio a quella fase aurorale in cui un nuovo strumento è in grado di stimolare nuovi immaginari. La sezione spettacoli viene affidata a un drammaturgo, Sergio Pugliese, quella informativa a un giovane cronista, Vittorio Veltroni. Entrambi provengono dalla radio. L’indirizzo ufficiale della Rai è: via Arsenale, 21, Torino.
Per fortuna, ora di tv non si occupano soltanto gli addetti ai lavori (più spesso ai livori) ma storici, studiosi della lingua, sociologi, antropologi, concordi nell’assegnare alla tv un ruolo decisivo nell’autorappresentazione del Paese, nella diffusione di una lingua unitaria, nella sincronizzazione dei ritmi di una comunità (la tv come «orologio sociale»), nella funzione pedagogizzante.
Privilegiando il rapporto con la propria audience, dividerei la storia della tv italiana in quattro grandi periodi: quello in cui la Rai è più avanti del suo pubblico (l’analfabetismo riguardava metà della popolazione italiana), quello in cui l’offerta televisiva è in perfetta sincronia con il «sapere» degli spettatori, quello in cui c’è una tale abbondanza di offerta che è necessario declinare al plurale sia le televisioni che i pubblici, infine quello attuale, frutto della più grande rivoluzione che ci sia mai stata nel mondo della comunicazione: il passaggio dall’analogico al digitale.
La tv delle origini (1954-74)Basti pensare alle inchieste di Mario Soldati, Ugo Zatterin, Giovanni Salvi, Virgilio Sabel, Sergio Zavoli, ai varietà di Falqui e Sacerdote, ai quiz di Mike Bongiorno, al grandioso progetto di Telescuola (c’è anche un corso per analfabeti tenuto dal maestro Manzi) per rafforzare questa tesi: ogni programma era anche un’offerta di conoscenza per il pubblico, per la prima volta il mondo entrava in casa. A ragione, i dirigenti dell’epoca sono ricordati come circonfusi di un’aura di venerazione e di professionalità. Proprio santi non erano (specie l’informazione era rigidamente controllata dalla Democrazia cristiana), ma hanno avuto la buona sorte di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, quando la tv stessa guidava chi voleva lasciarsi guidare e trascinava i nolenti. Il giovedì sera, era d’uso fra le famiglie più benestanti invitare i vicini di casa, con sedia di scorta, a vedere «Lascia o raddoppia?»: una parentesi miracolosa nella vita condominiale.
La tv della deregulation (1975-1999)È l’epoca dei programmi che tutti vedevano, di cui tutti parlavano, da cui tutti erano influenzati, compresi gli altri media: «90° minuto», «Bontà loro», «Portobello», «L’altra domenica», «Quelli della notte», «Quark», «Domenica in», «Mixer», «Samarcanda», «La Piovra». C’è poi da registrare la fortissima spinta delle tv commerciali, di Mediaset in particolare, come nel caso di «Drive in» o di «Mai dire gol». È il momento in cui, per la sua specificità di «medium generalista di flusso», la tv tende a sincronizzare con rara efficacia i ritmi di un’intera comunità nazionale. Quando a «Portobello», nel 1978, il signor Piero Diacono, tramviere, propone di spianare il colle del Turchino per creare una corrente d’aria in grado di spazzare via la nebbia in Val Padana, l’idea è dibattuta in ogni luogo, dai bar alle università.
La tv dell’abbondanza (2000-2010)L’offerta è ormai così grande (arriva il satellite, arriva la pay tv) che solo una parte della popolazione, la più anziana, vive la tv come unica interfaccia col vasto mondo. Si parla di declino, in Rai abbondano gli sceneggiati su Padre Pio. Mediaset mira all’audience commerciale e le tv a pagamento cercano di attrarre un pubblico più giovane e socialmente attivo.
Mentre nasce l’epopea del Grande Fratello, si assiste a una sorta di scissione. I canali crescono a dismisura e sono alla ricerca di nicchie di pubblico più remunerative: arrivano le grandi serie americane, si alzano gli standard linguistici, s’intrecciano le discussioni teoriche, lo showrunner diventa il nuovo romanziere. Il consumo televisivo tende a farsi sempre più personalizzato, in un’ideale linea di sviluppo che conduce dalla griglia del palinsesto alla libertà dell’on demand. In una fase di riflusso della tv generalista, il lievito di molte trasmissioni sono i casi di cronaca nera, tanto da diventare format sperimentati. Le trasmissioni sui delitti colonizzato i palinsesti, diventano rubriche fisse dei contenitori pomeridiani e domenicali, si serializzano.
La tv della convergenza (2011-oggi)A un certo punto è circolata la voce che la tv (generalista) fosse morta, soffocata dalle grandi piattaforme di distribuzione, le cosiddette OTT (over-the-top): la visione in streaming avrebbe «ucciso» i vecchi palinsesti, cioè la tv lineare, quella dei tg, delle domeniche pomeriggio, dei talk show dove tutti urlano e non si capisce niente. Ancora una volta è una «notizia fortemente esagerata», come quando si erano decisi a tavolino i funerali del teatro, della radio, del cinema. In realtà, la tv generalista gode ancora di buona salute (Rai, Mediaset, La7: persino le piattaforme Discovery e Sky hanno cercato uno sbocco sul digitale), il suo statuto è attraversato da fenomeni di innovazione e cambiamento, da mezzi più personali, come tutti quelli che si appoggiano al digitale come linguaggio e al web come piattaforma distributiva. Si parla di partecipazione attiva, di ritorno dei giovani (dati per dispersi), di una «ritualità reloaded». Si tratta di una ritualità sincronizzata non più sulla società ma sui social media ma che evidenzia la capacità di molti programmi di generare ancora condivisione: engagement, like, tweet...
La tv attrae il mondo dei social con contenuti forti; disponendo di una massa critica di trasmissioni, a fronte di una lieve decrescita, riesce ancora a trasformare la sua offerta in parola, cioè in discorso comune, attraverso momenti importanti (Festival di Sanremo, X Factor, Amici, gli eventi di cronaca e di sport, ecc). La grande influenza che la televisione ha avuto e ha sulla cultura popolare è rappresentata soprattutto dalla sua presenza nella vita quotidiana: è visione e insieme esperienza vissuta, è flusso continuo di contenuti e insieme di emozioni. Settant’anni fa, come oggi.