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 2023  dicembre 30 Sabato calendario

Sull’Ungheria

a Grande Restaurazione parte dal castello di Buda: sulla collina che domina la capitale ungherese, una selva di gru e cantieri lavora alacremente per riportare la storica cittadella alla sua immagine passata. Dal palazzo reale a quello dell’arciduca Giuseppe, tutto viene ricostruito in copia carbone dell’originale, una replica in trompe l’oeil di uno splendore perduto che si vorrebbe riconquistare. «La memoria – ricorda Zsolt Németh, l’influente presidente della Commissione Esteri del Parlamento magiaro – svolge un ruolo importante nell’Europa centrale: la nostra missione è ricostruire, ricreare la nostra storia».

Un’impresa intinta nella nostalgia: al congresso di novembre di Fidesz, il partito del premier-padrone Viktor Orbán, sul maxischermo alle spalle del palco scorrevano immagini stilizzate di contadinelli in costume tradizionale sullo sfondo di bucoliche scene campestri. Un idillio che però si alternava a video al vetriolo contro la Commissione europea e la sua presidente Ursula von der Leyen, dipinta con sguardo vampiresco mentre attenta alle virtù magiare.
«Diciamo no al modello europeo imposto da Bruxelles – tuonava Orbán, il cui arrivo è preceduto da un coro di bambini in uniforme che regala alle assise un sapore nordcoreano —. È un modello che non ha futuro, destinato al disastro. L’Ungheria sta proteggendo sé stessa dagli immigrati, dalla propaganda gender e dall’ideologia giacobino-ecologista». E giù strali contro il «puparo» George Soros e contro gli Stati stranieri che avrebbero pagato per sconfiggere nel 2022 i nazional-populisti al potere a Budapest ormai da oltre 13 anni. «Se avessero vinto loro – ammoniva Orbán —, Budapest sarebbe diventata come le capitali occidentali, con centinaia di migliaia di immigrati per le strade e gli attivisti trans nelle scuole. Ma noi abbiamo un contro-piano, un contro-modello ungherese, che la gente ci invidia!».
Perché di questo si tratta, al fondo, dietro la battaglia ingaggiata da Budapest contro Bruxelles su tutti i fronti, dall’immigrazione all’ingresso dell’Ucraina nella Ue: uno scontro di valori e di civiltà, che oppone una piccola nazione che si sente minacciata dalla marea della storia ai grandi ideali universalisti abbracciati dall’Occidente. «Oggi il nuovo comunismo è il liberalismo, l’ideologia che accomuna socialisti, liberali e Verdi europei – teorizza Zoltán Kovács, il portavoce internazionale del governo e spin doctor di Orbán —: sono internazionalisti come lo erano i comunisti. Invece noi conservatori crediamo che il grande patrimonio siano le differenze nazionali: chi se ne vuole liberare va contro la natura stessa dell’Europa».
È il riflesso condizionato di un’isola etnica e linguistica piantata nel cuore del continente, che teme di sparire diluita dalle grandi correnti della globalizzazione: «Noi abbiamo combattuto per la nostra sovranità per millenni, non la abbandoneremo ora – spiega Balazs Orbán, principale consigliere e ideologo del premier (nessuna parentela fra i due) —. Se sei un Paese centro-europeo sei impegnato in una costante battaglia per la sovranità». E la memoria storica dei magiari va non solo alla dominazione sovietica, ma si estende all’Impero austro-ungarico e alla lotta secolare contro i Turchi: un’esperienza del passato radicalmente diversa da quella dell’Europa occidentale che si riflette in una diversa Weltanschauung.
Ma per loro, adesso, la minaccia all’identità nazionale arriva da Bruxelles e prende corpo nell’immigrazione. Budapest ha costruito una barriera invalicabile ai suoi confini sud-orientali per tenere fuori i migranti illegali e si oppone fieramente alle politiche redistributive affacciate a livello europeo: «È una questione culturale – argomenta Kovács —. Gli ex imperi come la Gran Bretagna o la Francia pensano di avere il dovere di accogliere, ma dal nostro punto di vista l’integrazione dei migranti in Europa occidentale non funziona: noi non diventeremo mai come il Regno Unito, multietnico e multiculturale. Anzi, per noi il beneficio del comunismo è stato di averci tagliati fuori da questo tipo di sviluppo».

Il governo ungherese si fa forte di un ampio consenso pubblico su questi temi e respinge al mittente le accuse di populismo: «Lo chiamano così, ma è la base della democrazia – sostiene Kovács – perché noi misuriamo costantemente il sentimento popolare». Allo stesso modo ribaltano l’accusa di aver dato corpo a una «democrazia illiberale», che ha solo la parvenza di uno Stato di diritto: «Quando diciamo illiberale – spiega Judit Varga, l’ex ministra della Giustizia che è la fotogenica poster girl dell’orbanismo e sarà la capolista di Fidesz alle elezioni europee dell’anno prossimo – intendiamo dire che usiamo la nostra versione di democrazia, che non è quella occidentale. È facile incasellarci come populisti e nazionalisti: ma che c’è di male nel consultare il popolo? E in ungherese la parola nazione è sacra, è legata alla sopravvivenza nazionale, non significa nazionalismo in senso deteriore. Dobbiamo stare attenti alle parole».
È per questo che a Budapest si sentono custodi di un modello alternativo: «Abbiamo dimostrato che si può gestire un Paese in maniera diversa», afferma Judit Varga. Ma c’è molto di più: loro si vedono portatori di una missione che va al di là del loro piccolo Paese perché, come dice l’ex ministra, «noi siamo una nazione più antica della media europea, siamo qui da mille anni e nei secoli abbiamo dato il sangue per proteggere l’Europa e i suoi valori», che loro identificano nelle specificità nazionali e nella famiglia. «Siamo la coscienza di molti cittadini occidentali – proclama Judit Varga – e la mia missione è portare la libertà in Europa, dove non c’è più libertà di parola o autentica democrazia. Il problema dell’Europa è che è troppo ricca, vecchia e debole».
Un pulpito inaspettato per questi discorsi Budapest lo avrà l’anno prossimo, quando da luglio assumerà la presidenza di turno della Ue (dal 1° gennaio al 30 giugno la presidenza spetterà al Belgio): «Ci darà l’opportunità per dare uno spin ungherese all’Europa – promette János Bóka, il ministro per gli Affari europei —. Metteremo un po’ di paprika nel piatto quando nessuno guarda». Ma un passaggio fondamentale saranno le elezioni europee di giugno: «Sono un momento importante – dice il viceministro degli Esteri, Levente Magyar – dopo di che potremmo considerare di unirci al gruppo conservatore di Giorgia Meloni». Il problema degli ungheresi è infatti l’isolamento internazionale, dopo la cacciata del partito di Orbán dai popolari europei: ma loro non se ne fanno gran cruccio, anzi ci scherzano su, come fa Zoltán Kovács, che cita la vecchia barzelletta transilvana per cui «siamo circondati? Meglio, possiamo attaccare in tutte le direzioni!». E infatti Judit Varga pianifica la controffensiva a livello europeo: «Il mio sogno è spaccare il Partito popolare e portarne una parte con noi in un grande gruppo conservatore».

Centrale in questa strategia è il rapporto con l’Italia meloniana: «Voi siete un partner strategico – dice Magyar – e con la Meloni speriamo di poter andare anche oltre, ma siamo un po’ delusi che non si sia ancora fatto». Lo scoglio principale è la redistribuzione dei migranti, caldeggiata da Roma e osteggiata da Budapest: «I conservatori non si uniscono automaticamente – ammette Kovács —, ci sono delle differenze. Con l’Italia siamo vicini più in teoria che in pratica, ma alla fine c’è accordo sul principio ideologico che l’immigrazione è una sfida di civiltà».
In ogni caso i prossimi due anni saranno decisivi, dice Magyar, «per far avanzare il nostro ideale di un’Europa di Stati sovrani e indipendenti». E il modello ideale? «L’Impero austro-ungarico è stato uno dei periodi più brillanti per noi – confessa a sorpresa il ministro per l’Europa —: porta una lezione anche per l’oggi». Il mito asburgico per un futuro che sa tanto di passato.