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 2023  dicembre 30 Sabato calendario

I turchi, gente come noi

«Siamo tutti Greci!», tuonava Percy Shelley nel 1821, a pochi mesi dallo scoppio della rivoluzione contro gli ottomani. Il problema è capire cosa significa essere greci. Adamantios Korais – ex mercante di sete, dottore in medicina, autodidatta degli studi classici e «padre della nazione greca» – lo aveva spiegato pochi anni prima, sull’onda dell’entusiasmo della Rivoluzione francese e delle campagne napoleoniche. Non è un caso che lo stesse facendo proprio in quel periodo, mentre in tutta Europa iniziava a diffondersi il germe del nazionalismo. Perché è questa la Grecia, ma si dovrebbe dire Hellas, Ellade (Graecia è latino): una «nazione» (ethnos), unita da una lingua, erede di una tradizione gloriosa. Sono le stesse idee di Shelley, Byron, Foscolo o Winckelmann. Idee bizzarre, per i greci del tempo, che non avevano nulla da spartire con questi giganti di un passato remoto (giganti in senso letterale, come si poteva constatare dalle dimensioni imponenti di quello che restava dei loro monumenti). E infatti nessuno si disperò quando lord Elgin si portò via i marmi del Partenone. Quelli erano gli Hellenes, popoli antichi, corrotti da una falsa religione. Loro erano i «romani», i Romioi, gli eredi dell’Impero, cristiani devoti (ortodossi), con il cuore rivolto a Oriente, verso la vera capitale: Costantinopoli. Era lì, del resto, lungo le coste dell’Asia Minore, tra Smirne ed Efeso, e poi più a nord risalendo lungo il Mar Nero, che vivevano le comunità greche più vivaci. Nella regione chiamata «Rumelia», appunto, la «terra dei Romani». Non certo in quelle lande depresse all’estremità meridionale della penisola balcanica.

Quand’è finito l’Impero romano? Ecco una data che tutti o quasi ricordano, ripetuta diligentemente da generazioni e generazioni di studenti. Ma è sbagliata. Nel 476 d.C., con la deposizione di Romolo Augustolo, non finì nulla. Semplicemente una parte dell’Impero, la parte più povera e arretrata, cadde nelle mani di alcune orde di barbari (i Longobardi, i Franchi, i Germani..., popolazioni nomadi provenienti dalle steppe dell’Asia Minore: questi sono i progenitori degli europei). E infatti molti di questi capi barbari, non appena prendevano possesso di un territorio, si affrettavano a dichiarare la loro fedeltà all’Impero. Loro erano soltanto i reggenti. L’imperatore continuava a sedere sul suo trono, avvolto in tutta la sua gloria, sulle rive del Bosforo, a Costantinopoli appunto. A differenza di questi nuovi regni fondati sulla violenza e sul saccheggio, l’Impero romano sarebbe durato ancora a lungo, per secoli e secoli. Quanto?
Quando era entrato a Costantinopoli, Maometto II aveva pianto. Costantino XI Paleologo non si era arreso, come gli era stato richiesto, e ai soldati ottomani era stato concesso un giorno di razzie e saccheggi senza freni come premio per la battaglia. Il cuore del sultano «si era riempito di compassione», scrive uno storico del tempo, vedendo «il gran numero di morti e la devastazione degli edifici» (niente a che vedere, peraltro, con quello che avevano combinato i cristiani latini nel 1204). E come tutti i condottieri, grandi e meno grandi, da Serse a Scipione, nel momento di massimo trionfo «si era messo a meditare sull’incostanza di questo mondo, il cui destino è quello di cadere in rovina». Intorno risplendevano i mosaici del più grande edificio del mondo, la chiesa della Divina Sapienza, Hagia Sophia. Era il giugno del 1453. Ma forse l’Impero romano non era caduto neppure quel giorno.
Così sosteneva ad esempio Jean Bodin, il grande giurista francese, quando ridicolizzò le pretese di Carlo V e degli Asburgo di essere gli eredi di Roma (e di Carlo Magno). A suo parere le rivendicazioni degli ottomani erano più che legittime, perché governavano su un numero maggiore di territori romani: «Se vi è nel mondo alcuna grandezza d’impero e di vera monarchia, essa deve certamente scaturire dal sultano». Come noto, i sultani ottomani indossavano il turbante. Ma Solimano I il Magnifico nel 1532 si era fatto fare dagli artigiani veneziani – un bell’esempio di Rinascimento globale – anche un elmo meraviglioso, decorato da cinquanta diamanti, e poi perle, rubini, smeraldi. Era sormontato da quattro corone, a rappresentare i quattro regni biblici profetizzati da Daniele. Subito dopo avere conquistato la capitale si era recato sulle rovine di Troia, orgoglioso di averla finalmente vendicata: perché anche i turchi, proprio come i Romani, discendevano dai Troiani. Il messaggio, in entrambi i casi, non poteva essere più chiaro. Era lui, Solimano, l’erede dell’impero universale romano, l’ultimo sovrano del mondo prima del giudizio finale di Dio. Nel 1453 non era finito proprio niente. I Rûm, i Romani, erano sempre al loro posto, a capo del mondo.

Che cosa dire però dell’opposizione tra islam e cristianesimo? Niente, probabilmente. Perché si tratta forse di un’opposizione esagerata, non corrispondente alla realtà. La convergenza tra le due fedi era stata implicitamente approvata persino da un Papa, Pio II, quando aveva scritto a Maometto II (il conquistatore di Costantinopoli), offrendogli di mettersi a capo della comunità cristiana. Era una mossa polemica, per fustigare i prìncipi cristiani, che pensavano solo a combattersi gli uni con gli altri. Ma se lo aveva fatto era perché tra le due religioni, due religioni monoteistiche, fondate su un libro sacro, correvano molte più affinità di quanto non si voglia ammettere. Agli occhi di un cristiano ben disposto (come ad esempio Nicola Cusano, vescovo e filosofo), l’islam apparteneva insomma allo stesso album di famiglia. E così, scriveva il Papa, «sarebbe bastata un po’ di acqua (un’allusione sorprendente, al limite dell’empietà, al battesimo, ndr) per potersi mettere a capo del mondo».
Maometto non rispose neppure, visto che lui capo del mondo lo era già. Ma per molti sudditi islamici del suo impero non c’era niente di strano nel dialogare con i cristiani. Soltanto guardando più a nord di Roma. «Meglio turchi che papisti» si urlava nei Paesi Bassi e in Germania, dopo la rivoluzione di Martin Lutero. Il sultano Murad III fu ben contento di aiutare i protestanti, ricordando la loro vicinanza nella battaglia contro l’idolatria cattolica, in difesa di un autentico monoteismo.
Non è stata solo trionfale la storia di questi sultani e califfi: dopo i primi secoli, lo slancio si interruppe e l’Impero ottomano divenne, come si ripeteva in tutte le cancellerie, «il malato d’Europa», un bottino potenziale su cui mettere le mani. Ma «d’Europa», appunto: per secoli, l’Impero ottomano è stato considerato parte integrante dell’Europa e della sua storia, e non come un avversario esterno, ed estraneo, totalmente altro. Le fonti polemiche lo ricordano come un impero dominato dal lusso, dalla crudeltà e dalla corruzione. È stato anche altro – ad esempio, un esperimento di tolleranza religiosa (non senza problemi, ma in modo simile ai Romani), ben prima degli illuministi Settecenteschi, mentre in Europa ci si scannava strada per strada. Nel 1492, in una Spagna cristianissima e ossessionata dalla purezza, gli ebrei sefarditi che non volevano convertirsi erano stati costretti all’esilio, trovando riparo nei Paesi Bassi. È una storia nota. Meno noto, però, è che la maggioranza di questi sefarditi si diressero molto più a est, dove potevano godere di una libertà ben maggiore. A corte dell’imperatore ottomano, insomma, che gli ebrei celebrarono infatti come la «verga di Dio», colui che realizza il piano divino nel mondo, punendo i persecutori cristiani. Lì gli ebrei, accanto ai greci ortodossi, hanno prosperato a lungo, come medici, diplomatici, consiglieri, spie, banchieri, mercanti. Una differenza tragica rispetto agli scenari contemporanei (per gli ebrei le cose erano iniziate a cambiare dal grande incendio di Istanbul nel 1660; quanto ai greci la catastrofe sarebbe arrivata nel 1923, poco dopo il genocidio armeno).

È una lettura illuminante quella dei due libri recentemente editi da Einaudi, La Grecia. Biografia di una nazione moderna di Roderick Beaton e Gli ottomani. Khan, cesari e califfi di Marc David Baer. Ci ricorda che le classificazioni sono appunto classificazioni: tentativi di fare ordine nel marasma della storia, che difficilmente possono esaurirne la complessità e spesso servono piuttosto a occultarla. Com’è avvenuto in Grecia, dove secoli di storia sono stati messi da parte; o in Turchia dove il mito del neo-ottomanesimo coltivato da Erdogan sta cancellando sistematicamente ogni memoria di quella società multiculturale che l’impero fu.
E noi? Il passato è sempre più ricco di quello che pensiamo; gli intrecci sono globali, e conducono ben oltre le frontiere, vere o immaginarie. Dove finisce l’Europa? Non si tratta certo di rovesciare a tutti i costi paradigmi consolidati, come quello che fonda l’identità europea sui due pilastri del cristianesimo e dell’antichità greco-romana, in opposizione all’islam. È un fatto certamente importante. Ma rimane che pure musulmani (ed ebrei) hanno calpestato a lungo le strade del nostro continente (e continuano a farlo: siamo tutti sempre in movimento). Anche loro fanno parte di questa storia, e non solo nei termini di un’opposizione, come se fossero corpi estranei inassimilabili. Chi decide cosa sia una civiltà, di cosa si compone una tradizione? Alzare lo sguardo, adottando anche prospettive diverse, ci aiuterà a capire meglio anche noi stessi.