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 2023  dicembre 28 Giovedì calendario

Intervista a Paola Cortellesi

Paola Cortellesi, dopo questo anno per te fantastico, cosa ti auguri per quello che viene?
«In primo luogo che vengano difesi i diritti delle donne. La grandezza dell’approccio che le donne hanno avuto nelle loro battaglie fa sì che le loro conquiste non si presentino mai come obbligo per l’individuo, ma come possibilità per ciascuna. Per fare in modo che milioni di persone di sesso femminile non fossero costrette ad andare avanti nella vita “come se niente fosse”, si è stabilito, dopo dure battaglie, che potessero scegliere. Scegliere di sposarsi e di divorziare, scegliere di mettere al mondo un figlio quando hanno deciso di farlo (quanto ancora c’è da fare per le donne single...). La posizione opposta è un divieto, un obbligo. Prendiamo la legge sull’aborto. È una grande conquista che dovrebbe essere accompagnata da politiche attive a favore di una maternità consapevole. E invece l’unica cosa di cui si parla oggi, anche negli Usa, è di mettere in discussione la libertà di scelta della donna. Io ho preso sul serio la promessa dell’attuale premier, una donna, di non toccare la legge 194».
I femminicidi continuano, in tutto il mondo.
«Non smettono, lo vediamo ogni giorno. Sono il segno di un’idea di possesso maschile che è dura a morire. Però, specie dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, ho visto dei segni importanti di risveglio della coscienza, specie tra i giovani. Nelle manifestazioni c’erano tante ragazze, ma anche tanti ragazzi che si stanno mettendo in discussione. Mi sembra che si stia imparando a coltivare le parole giuste e lo si faccia insieme, donne e uomini. Ecco un altro augurio per il 2024. Che le parole prendano il sopravvento sulla violenza, che le si allevi insieme, perché sono lo strumento principale capace di assicurare una vita comune. Le parole scambiate, accettate, sono il contrario della violenza».
E per Roma, la città che ami?
«Dico una cosa ovvia, ma vera. Che ci sia un soprassalto di senso civico. L’amministrazione deve funzionare, deve farlo davvero, ma noi dobbiamo aiutare con comportamenti più attenti e rispettosi del prossimo. Ci vuole, a cominciare dall’alto, spirito di comunità; una città soffre per l’individualismo sfrenato non meno che per l’inefficienza».
Torniamo, in Europa, in un tempo di guerra. E dobbiamo fare i conti con la crisi ambientale.
«Chi ha le competenze per intravedere le possibili soluzioni di tutto questo siede in aule parlamentari (altri siedono al bar sotto casa e “ah signora mia”, avrebbero delle certezze in tasca ma ecco, eviterei). Da comune cittadina spero nell’utopia di una grande visione politica globale, condivisa e compatta, fatta di programmi razionali, ambiziosi e realistici. Non sarà il populismo, che riduce tutto a slogan e reazioni emotive, a salvarci. Sono preoccupata per le nuove generazioni, per il mondo che gli stiamo per lasciare».
Cominciamo dall’inizio, da Paola piccola...
«Condividevo la stanza con mia sorella, che ha sette anni più di me. Sulla parete vicino al mio letto c’era il poster di John Taylor, era il periodo dei Duran Duran. Ovunque, disseminati, gli stickers della rivista Cioè. E un pallone da basket. Amavo l’Nba, seguivo le sue partite, veneravo Magic Johnson e ogni anno era una festa quando mio fratello mi portava a vedere gli Harlem Globetrotters al Palazzo dello Sport. Ma a giocare ero scarsissima. Ero scoordinata, per di più mancina e se per un caso sventurato mi trovavo a destra sbagliavo sempre il terzo tempo. Ero davvero improbabile, a basket. Il pallone era nella mia stanza un po’ come una decorazione e un po’ come emblema delle mie imperfezioni».
Avevi un diario?
«Mai tenuto. Me li regalavano le zie. Magari li iniziavo ma poi mi stufavo, anzi mi vergognavo. Se li ritrovassi sarebbero un rosario di incipit. Non faceva per me. Mi sembrava di dover rendere conto al diario di quello che facevo o pensavo. E poi, in generale, le confidenze mi sembrava più prudente affidarle alla caducità dell’istante, non renderle eterne sulle pagine di un diario con i fiorellini».
Che facevano i tuoi?
«Mio padre ispettore di commercio, mia madre casalinga, era anche una sarta bravissima, una modellista perfetta. Io ho studiato al liceo e poi mi sono iscritta a Lettere, indirizzo musica e spettacolo, che ho lasciato a metà percorso per studiare teatro. Volevo fare questo, nella vita. Ma per la mia famiglia era una scelta bizzarra, non era il nostro mondo. Per cui sembrava solo un sogno, uno di quelli meravigliosi che si fanno da ragazzi. I miei volevano solo proteggermi da eventuali delusioni. Ma non mi hanno mai tarpato le ali, mai hanno fatto prevalere le loro legittime preoccupazioni sulla mia passione. Mi hanno seguito con affetto e discrezione».
Come hai iniziato a cantare?
«A sette, otto anni mi divertivo a riprodurre a voce l’assolo di Mark Knopfler in “Tunnel of love” e i miei cavalli di battaglia erano “Bycicle race” dei Queen e “Honesty” di Billy Joel. Dai 17 ai 21 anni cantavo nei locali con varie band. Abbiamo fatto l’Estate Romana, siamo stati al Centrale del Foro Italico con la band di cover pop-rock, al Big Mama con la band di cover blues e molto nei piano bar, dove notoriamente non ti ascolta nessuno e a volte pensi anche di dare fastidio. Io mi portavo da casa leggio e microfono. Ma ero timida, mi sarebbe piaciuto avere l’abilità di intrattenere anche parlando. Allora non conoscevo il Teatro canzone di Giorgio Gaber, poi una ragazza mi consigliò di fare una scuola di teatro e io la stetti a sentire, per fortuna. Non l’ho mai più vista, dovrei ringraziarla».
Tuo padre è mancato qualche anno fa. Cosa ti direbbe oggi, dopo il successo incredibile di «C’è ancora domani»?
«L’esistenza di mio padre mi ha illuminato la vita. Mi ha insegnato che ridere è una cosa seria. Mi ha insegnato l’umorismo e l’autoironia che mi hanno sempre salvato. Cosa mi direbbe oggi? “Bella di papà”, mi direbbe».
Come ti è venuta l’idea del film?
L’eredità di Giulia
Ho visto dei segni importanti di risveglio della coscienza Nei cortei c’erano tante ragazze, ma anche tanti ragazzi Mi sembra che si stia imparando a coltivare
le parole giuste e lo si faccia insieme, donne e uomini
«Volevo raccontare i diritti delle donne. In particolare di quelle donne che non si è mai filato nessuno. Ho ascoltato tanti racconti di nonne e bisnonne che hanno vissuto quel tempo. Per questo il film è in bianco e nero, perché quando loro parlavano io le immaginavo così, le loro storie. Storie raccontate con disincanto, quasi con fatalismo. Nel film sono rappresentate dalle donne che commentano tutto nel cortile. Mi è rimasta nella testa una frase che dicevano, a proposito di quelle, tra loro, maggiormente vessate: “Eh, porella”. Da piccola ascoltavo i loro racconti e mi sembrava che ci fosse una contraddizione, come uno stridere, tra la drammaticità del racconto di queste donne schiacciate dai mariti violenti e il tono che usavano, quasi leggero».
È l’inizio del tuo film...
«Quello schiaffone preso per cominciare la giornata, come fosse una cosa normale. E soprattutto l’andare avanti “come se niente fosse”. Tante vite di donne si sono svolte “come se niente fosse”. Nella mia vita ho dato voce, da attrice, a donne gigantesche come Nilde Iotti o Maria Montessori. Ho voluto invece raccontare nel film la vita delle donne a cui è stato fatto credere di essere delle nullità, a cui, nella vita, non è mai stata data una pacca sulla spalla. Per parlare di loro non ho scelto un tono drammatico, il registro è ironico, talvolta surreale».
Nel tuo film la musica mi è sembrata decisiva, proprio per il suo essere spesso in totale astrazione dal tempo storico raccontato.
«L’idea mi è venuta ascoltando “Nessuno”, una canzone della fine degli anni cinquanta reinterpretata meravigliosamente da Petra Magoni, già questo un gioco del tempo. Quando nel testo si dice la parola “eternità”, ho sentito una fiocinata. È il peso che si sente nella storia che ho raccontato. Vite senza via d’uscita, vite come condanna, vite come gabbie. Non vite come promessa, non vite come scelte. Eternità diventa così un incubo, sotto le vesti di scena di un matrimonio. È in fondo il tema di un’altra canzone che ho messo nel film, scritta da Daniele Silvestri, “A bocca chiusa”, che celebra il valore della parola usata “senza scudi per proteggermi né armi per difendermi/né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi”. La parola con la quale tante cose sono cambiate e tante devono ancora cambiare».
E il finale? Quello scoprire, con un movimento di macchina da presa, che non si è sole?
«Stavo leggendo a mia figlia Lauretta il libro “Nina, i diritti delle donne”. E lei scopriva, con quelle parole, che tutto quello che per lei era scontato – il voto delle donne, il divorzio – fino alla metà del Novecento e oltre non era consentito. Le ho detto come li abbiamo conquistati, perché c’è una continuità nella sofferenza e nell’emancipazione delle donne, e che però non dobbiamo mai, lo vediamo in questi mesi, dare per acquisito nulla. Non è vero che non cambia mai nulla, ma è vero che c’è sempre qualcosa da cambiare».
Ti aspettavi l’incredibile successo di questi mesi? Il tuo film è nella top ten dei dieci più visti nella storia del cinema in Italia e il quinto di quelli prodotti nel nostro Paese. Credo anche l’unico diretto da una donna...
«Ovviamente no. Speravo che si diffondesse, magari crescendo nel tempo, un’emozione. Quello che sognavo erano sale piene e grande partecipazione emotiva. Quando lo abbiamo scritto, con Giulia Calenda e Furio Andreotti, ci siamo detti quanto fosse perfetto l’equilibrio tra i registri ne “La vita è bella” di Roberto Benigni, un film che ho molto amato proprio per la capacità di raccontare la più spaventosa tragedia dell’umanità attraverso la leggerezza. Quella di cui parla Italo Calvino: “Leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Essere lievi non significa togliere gravitas al dolore, per me. Un altro film che mi colpì, in questo senso, è “Il grande dittatore” di Chaplin. Il mondo che stava precipitando in una guerra spaventosa era rappresentato con la leggerezza di un pallone gonfiabile con cui il despota di turno giocava, come fosse cosa sua».
Torniamo per questa via a un tema antico e attuale. Il cinema si fa per il pubblico o per «gli ambienti bene informati della capitale»?
«Sono cresciuta nutrendomi del cinema di Risi, Comencini, Scola, Monicelli, Benigni. Sono stata una loro spettatrice. La mia scelta è stata sempre rivolta agli autori che con le loro storie sapevano emozionarmi. Cercavo quelli che mi sapevano toccare il cuore, anche facendomi male, e che mi regalassero dei dubbi. Perché il dubbio è libertà, ed è sempre un dono. Il dubbio è il veleno di ogni dittatura. Con il cinema si può e si deve sperimentare, per creare un linguaggio e cercare un confronto. Farlo per una ristretta cerchia di fedelissimi che ti copre di elogi ti mette al riparo per un po’, ma c’è la possibilità che poi ti buttino via con la stessa facilità».
È un atteggiamento gratuitamente aristocratico, spesso ammantato del suo contrario.
«La ricerca dell’armonia tra qualità e popolarità è difficile, si naviga in mare aperto e non sempre riesce. Separare queste due dimensioni è molto facile. Ci si muove come all’interno di un nido, in una comfort zone rassicurante. A me non piace considerare il pubblico, i suoi gusti, con sussiego, come una “massa” indistinta, di persone da guardare dall’alto in basso, spesso pensando che meno sono, meglio è. Penso sia giusto cercare di portare il contenuto più alto al pubblico più largo. “La grande guerra”, “Il Sorpasso”, “Una giornata particolare” non sono forse riusciti proprio a far questo? Nella platea che qualcuno presuntuosamente definisce “massa” ci sono talenti, competenze, cuori che meritano attenzione e rispetto».
Nella «massa» ora ci sono anche i social...
«Li trovo pericolosi. Io li utilizzo per promuovere il mio lavoro o condividere cose belle o divertenti, ma non capisco perché debbano essere la vetrina della propria vita personale. Che senso ha esporsi, per come ti vesti o come mangi, al giudizio di persone che non conosci? Mi preoccupano soprattutto gli adolescenti, il cui impatto con la vita, nella stagione della loro formazione, avviene in un clima di tribunale permanente. Non tutti hanno la forza di superare critiche feroci e derisioni. Avere un “pubblico”, a quattordici anni, è pericoloso, molto pericoloso».
Tu hai sempre affrontato la vita e il lavoro con leggerezza, non sei certo una persona «pesante».
«Non lo so. Un po’ è il mio carattere, un po’ l’ho coltivata. La pratica della leggerezza ti aiuta a rifiutare il rancore, l’odio, l’astio, la volgarità, la spietatezza. Tutte cose che cerco di fuggire. Non è che mi piacciano tutti, ma, a fatica, cerco di passare sopra a quello che mi potrebbe dare dolore. Ora so che tutto sparisce velocemente e che molto non merita il mio dolore. Cerco, anche qui, di usare l’umorismo come forma di autodifesa».
Mi dici un film e un disco dai quali non ti separeresti mai?
«“C’eravamo tanto amati” di Scola e “La sera dei miracoli” di Lucio Dalla».
Il basket
Amavo l’Nba, veneravo Magic Johnson e ogni anno era una festa quando mio fratello mi portava a vedere gli Harlem Globe- trotters
Immagina di trovarti al parco con Lauretta, di vedere una bambina che ti assomiglia e di scoprire che sei tu piccola. Che consiglio daresti a Paoletta?
«Le direi che “va bene così”. Di non preoccuparsi mai se quello che fa non piace proprio a tutti. Io all’inizio mi nascondevo, ero invisibile. Non amavo gli exploit. Ero e sono, checché sembri, una persona piuttosto timida. A Paoletta direi: “È giusto quello che pensi sia giusto”. E mi piacerebbe vederla giocare con Laura, la figlia che verrà nella sua vita».