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 2023  dicembre 28 Giovedì calendario

La senatrice che vuol far far figli alle diciottenni

Come potremo mai farcela se le battaglie che combattiamo durano giusto il tempo di una ricorrenza e se l’indignazione come la commozione collettiva suscitata per l’omicidio di una giovane ragazza, Giulia Cecchettin, si accende e si spegne al ritmo delle telecamere televisive e delle pagine dei giornali, che si rivolgono altrove quando la cronaca del fatto è stata spremuta talmente tanto da non alzare più lo share né le vendite?
Quale consapevolezza in più abbiamo raggiunto nelle tante piazze che si sono riempite lo scorso 25 novembre, nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne se poi a distanza di qualche settimana siamo al punto di partenza, come nel gioco dell’oca?
Il femminicidio di Vanessa Ballan, la donna di ventisei anni, accoltellata dieci giorni fa da un uomo che non accettava la fine della loro relazione, è lì a dimostrarlo e non solo perché è l’ennesima storia di allarmi sottovalutati e di provvedimenti arrivati troppo tardi, ma anche perché a differenza dell’onda emotiva provocata dalla morte di Giulia, questa volta la reazione pubblica è stata meno partecipata e quella mediatica meno incisiva, come se le lacrime e lo sdegno si fossero esauriti nel caso precedente. L’attenzione pubblica è altalenante, del resto, va e viene, ci si stanca presto e di tutto: del Covid, della guerra e pure dei femminicidi. Nei giorni successivi all’omicidio di Giulia Cecchettin e all’intenso discorso di suo padre Gino, pronunciato nel giorno del funerale della figlia, si sono spesi fiumi di parole, molte a proposito, troppe a sproposito sulla cultura patriarcale che permea la nostra società e che sarebbe all’origine di molti comportamenti devianti. Il livello del dibattito era tale che sembrava che si fosse acquisita una nuova consapevolezza, così forte da imprimere un profondo cambiamento di rotta. Ieri mattina, invece la senatrice di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni, ospite in un programma su La7, Coffee Break, ha rivolto un invito alle ragazze (!) di diciotto anni: sposatevi e fate figli. Mica le ha incoraggiate a studiare, a prepararsi al meglio, a viaggiare, a costruire il loro futuro da donne autonome e consapevoli così da poter scegliere sempre liberamente il loro percorso. No, le ha invitate a figliare, dicendo così: «Non devi mai dimenticare che la tua prima aspirazione deve essere di diventare mamma a tua volta ed è quello che noi donne della mia generazione dobbiamo ricordare alle nostre figlie; non dobbiamo dimenticare che esiste la missione di mettere al mondo dei bambini che saranno i futuri cittadini italiani. Dobbiamo aiutare le istituzioni, il Vaticano, le associazioni a far diventare la maternità di nuovo cool. Dobbiamo far sì che le ragazze di 18- 20 anni vogliano sposarsi e mettere al mondo una famiglia».
Poco dopo alla Mennuni abbassa l’età a 17 anni per iniziare a procreare. Quel che la senatrice decide di trasmettere e insegnare alle sue figlie è legittimamente affar suo, quello che invece pensa di poter dire (e fare in Parlamento) nel suo ruolo istituzionale e pubblico, rivolgendosi a tutte le mamme e alle giovani donne, è ahinoi affare anche nostro.
Detto che fare figli è una scelta e non una missione, per il resto non è necessario commentare ulteriormente le parole della senatrice – si spera infatti che sia evidente a chiunque quanto siano arcaiche e insidiose – ci si limiterà però a ricordare una circostanza significativa: Giulia Cecchettin è stata strappata alla vita alla vigilia di un traguardo importante e simbolico come è una laurea, che segna la fine di un percorso e l’inizio di una fase auspicabilmente di realizzazione professionale. Filippo Turetta ne era talmente spaventato, che le chiedeva di rallentare, per tenere il suo passo. Ecco.
Del resto, pochi giorni dopo l’omicidio di Giulia in un’aula di un tribunale, quello di Tempio Pausania, l’avvocato di uno dei ragazzi accusati insieme a Ciro Grillo dello stupro di Silvia, aveva trasformato la vittima in imputata chiedendole, come ricorderete, perché non aveva urlato, perché non aveva usato i denti, come aveva fatto a togliersi gli slip se aveva le gambe piegate. Anche qui non si è vista nessuna indignazione da parte della categoria degli avvocati per i metodi scelti dall’avvocato Antonella Cuccureddu durante l’interrogatorio. Nella sua potente arringa, trasmessa nel documentario “Processo per stupro” (1979), l’avvocato Tina Lagostena Bassi diceva: «Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non ci interessa la condanna, ma vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, che è una cosa diversa. Cosa intendiamo quando chiediamo giustizia come donne? Chiediamo che anche nelle aule dei tribunali e attraverso ciò che avviene nelle aule dei tribunali si modifichi quella che è la concezione socio-culturale del nostro Paese, si cominci a prendere atto che una donna non è un oggetto».
Sarebbe molto utile se la Rai scegliesse di trasmettere nuovamente quel documento di eccezionale importanza. Per chiudere, va menzionata anche l’uscita a dir poco infelice del neo presidente della Consulta Augusto Barbera, che durante la sua prima conferenza stampa, un paio di settimane fa, rispondendo ad una domanda sulla parità di genere ha detto: «Lo dico a molte donne impazienti, che nell’auspicare nuovi traguardi, non bisogna dimenticare quelli che sono stati i progressi fatti». A dire il vero e per fortuna Barbera qualche ora dopo si è scusato, rivendicando il diritto delle donne ad essere impazienti. E ci mancherebbe altro. Il rischio insomma è sempre quello e purtroppo sembra essere una certezza: la partecipazione si accende e si spegne con la lucina rossa delle dirette e tutto torna subito come prima. A proposito, a Caivano come va? Ah, giusto, non è più cool, come direbbe la senatrice.