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 2023  dicembre 27 Mercoledì calendario

Intervista a Gabriele Muccino

La ricerca è stata lunga, ma Gabriele Muccino, 56 anni, ha trovato la serenità. L’incontro in uno studio fotografico a Roma, zona Mandrione, si lavora al poster diHere now, in sala nell’inverno 2024 con 01, con gli attori Elena Kampouris e Saul Nanni.«Lavorando con Will Smith – spiega il regista – ho imparato quanto conti il marketing nel rendere nuovo, originale, attraente un film. Nel poster ci sono due ragazzi e una pistola. È un film d’amore, ma con colpi di scena. Una storia allaFuori orariodi Martin Scorsese, tutto in 24 ore. Una ragazza americana che arriva con la sorella, dopo altre città d’arte, a Palermo e incontra un gruppo di coetani siciliani al mare.Sembra l’inizio di una classica storia d’amore estiva ma all’improvviso diventa il contrario di ciò che prometteva d’essere».Perché questa storia?«Volevo esplorare cosa succede quando si supera il confine tra lecito e illecito, la parte scura degli uomini diventa parte attiva, apriamo porte che per pudore o buon senso tendiamo a tenere chiuse: ci si ritrova in un labirinto di strade ignote, in un gorgo».Un thriller d’azione.«Sì, girando la serie A casa tutti beneho scoperto che mi piace esplorare i generi, trovarci la parte mucciniana più oscura e profonda. Questo film è riconoscibile come mio, ma ha un lato oscuro emotivamente forte».È girato in due lingue.«In inglese per la fruizione internazionale, mentre nella versione italiana la protagonista parla con i ragazzi in italiano. Ho girato ogni scena due volte».Il Ferrari in inglese con Driver?«Nel caso di major o di registi che parlano all’intero globo, devi avere un attore vendibile ovunque, come a me è successo con Will Smith. Ma dipende dal film».Lei come lo avrebbe realizzato?«Non con quell’impalcatura industriale. Quel film mi era stato proposto da Michael Mann, come produttore, nel 2007, ma la scrittura non mi piaceva e per vari motivi non lo feci. Se l’avessi fatto, Ferrari non sarebbe stato un italiano. In quella logica industriale non c’è spazio per una star che non è tale, perché lo è localmente».“C’è ancora domani”?«Mi ha commosso, ne sono orgoglioso. Tutti noi percepiamo l’onestà, l’autenticità di quel che Paola racconta. E c’è quel twist maestoso alla fine, sulla autodeterminazione della donna, che non voglio svelare».Un film che va visto dagli uomini.«Sì, perché ci mette davanti a una eroina con cui non abbiamo una relazione parentale, ma che ricorda le nostre zie, madri, nonne. In quell’atteggiamento umile, apparentemente passivo, c’è un dolore profondo che appartiene anche agli uomini. Forse di più, perché ci si sente in colpa per quello che abbiamo visto e ereditato in modo inconsapevole, anche a livello ancestrale».Il suo exploit fu “L’ultimo bacio”.«Partì bene e diventò inarrestabile grazie al passaparola. Doveva fare tremiliardi, ne fece 33».Con il successo arrivano le critiche.«L’ho vissuto sulla mia pelle, ero simpatico a tutti ai tempi diEcco fatto,quando L’ultimo bacio superò 10 miliardi anche i miei maestri, Monicelli, Suso Cecchi d’Amico, Scola, che mi avevano supportato fin lì ebbero una sorta di insofferenza. Il successo crea risentimento. Mi ci sono adeguato, convivo con un’aspettativa che vuole la tua caduta, più che il successo».Da sette anni è in Italia. Cosa la farebbe tornare a Hollywood?«Una bella scrittura e produttori affidabili, non cialtroni che ti riscrivono le scene in corso d’opera come fu in Quello che so sull’amore :negli Usa parlano di “incidente ferroviario” quando le cose vanno tutte male. E vorrei una star che garantisca visibilità del film. La protezione di Will Smith mi permise libertà sul copione e sul set».Con Smith vi sentite?«Ci scriviamo, senza toccare nervi scoperti. Lui ha una grande forza spirituale, ma Hollywood non dimentica, puritana e intransigente».Se Smith la chiamasse?«Andrei domattina. Gli voglio bene, siamo legati da tante cose, oltre a un film che ha definito le nostre vite,La ricerca della felicità».Che momento è, per lei?«Ho vissuto la coda degli anni americani in cui il Paese scivolava verso un degrado culturale e politico, Trump, il cinema si ripiegava in remake e rifacimenti, con House of cardsla tv diventava il primo rivale di Hollywood, gli showrunner sopra ai registi. Tornare in Italia mi ha rimesso al centro, ho fatto solo cose di cui sono orgoglioso».Frequenta i colleghi del cinema?«No, i miei amici sono quelli del liceo. Sono rimasto quel che ero per raccontare ciò che sono».Cosa la rende felice?«Tornare a casa da mia moglie, girare con mio figlio assistente alla regia. Di fronte alla volatilità del mondo le esperienze quotidiane diventano più profonde».Si sente realizzato?«Sì. Poi, dentro, mi sento sempre qualcuno che deve migliorare il suo percorso. Non rivedo i miei film, non mi crogiolo, spero sempre di poter fare qualcosa di migliore, inaspettato, esplosivo, che rimetta tutto in un nuovo movimento».