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 2023  dicembre 27 Mercoledì calendario

I nomi strani dei giapponesi

Dare a un figlio un nome speciale è un dono o un’imposizione genitoriale, un’impronta d’amore o una proiezione dell’ego della madre e del padre? Riprendendo la locuzione latina nomen omen, usata per suggerire come, nel modo in cui siamo chiamati dalla nascita fino alla morte, sia il seme di un destino, Tommaso Landolfi nel racconto A caso (1975) scriveva che «un nome qualunque non esiste, per così dire non si dà in natura; ogni nome reca una certa carica di destino». Ma qual è il destino di un essere umano il cui nome risulta impossibile da decifrare; di una bambina che porta il nome di un vulcano italiano sconosciuto in terra giapponese o di un ragazzo che si appresta a registrarsi per un colloquio di lavoro e tra i vari caratteri del suo nome uno intende l’idiozia? Kira-kira è l’onomatopea che in giapponese intende qualcosa che brilla, luccica e si fa vistoso, proprio come le illuminazioni natalizie che investono in questi giorni Tokyo; tuttavia, kira-kira, quando affiancato al termine «nome», racconta quei nomi inusuali, creati di sana pianta dai genitori, in cui scrittura e lettura sono spesso arbitrari. Si tratta di un problema complicato dal fatto che in Giappone, per via dei tre sistemi di scrittura combinati, nomi anche lievemente fuori dal comune risultano già difficili da pronunciare.
Ha riportato alla ribalta il problema l’intervista, rilasciata al Japan Times, di un uomo che in gioventù è stato bullizzato per via di un nome inconsueto e che, ottenendo il diritto legale a cambiarlo, ha ribadito quanto inopportuno possa essere subire un simile destino. Famoso nella storia del Paese il caso di un neonato registrato al comune come Akuma, «diavolo». Era l’agosto del 1993 quando il padre rivendicò il diritto di chiamarlo a quella maniera, affermando: «Basterà sentirlo una volta per memorizzarlo per sempre», salvo poi ritirarlo sotto pressione del governo e dell’opinione pubblica, insorta in seguito alla diffusione della notizia sui giornali. Apparentemente opposto il caso di un ragazzo che, in età adulta, cambiò il proprio nome in quanto l’originale suonava come «Principe», con tanto di suffisso onorifico, scelto dalla madre per eccesso d’amore. Non mancano oggi, tuttavia, Pikachu (dall’anime Pokémon) o Ariel (la sirenetta Disney), Venus o Knight (cavaliere in inglese).
Ogni anno, ad aprile, quando si inaugura il calendario accademico, affronto sui registri universitari centinaia di nomi scritti in kanji e sovrastati per prassi dalla lettura fonetica, e mi sorprendo di molti mai sentiti. Guardo i loro volti, certa che la personalità sia stata plasmata anche dal modo in cui sono stati accolti nell’infanzia, a scuola. Ho incontrato vari Cielo (sora) e Luna (lettura italiana applicata al carattere di tsuki); ho scoperto come i nomi dei figli, oggi,siano spesso contenitori in cui si mescolano oriente e occidente, come il caso di una compagnetta dell’asilo di mio figlio minore, Etna, così chiamata perché la madre, durante un magico viaggio in Sicilia, se ne era innamorata.
I nomi kira-kira sono in costante aumento. Del resto, in linea di massima, il governo non pone restrizioni: basta scegliere tra i quasi 3000 ideogrammi disponibili nella lingua giapponese. In una sorta di braccio di ferro tra occhio e orecchio, si partoriscono significati e letture fonetiche plurali.
Il livello culturale non sempre è responsabile, è piuttosto il sentimento di unicità che si vuole attribuire al proprio figlio, qualcosa che, suggeriscono alcuni studiosi, è forse il risultato ultimo di una omogeneità comportamentale e persino somatica spiccata in Giappone. La bibliografia in proposito è vasta. Come spiega il professor Makino Kunio in “I nomi dei bambini sono pericolosi”, ogni periodo storico ha partorito nomi che sono innanzitutto una risposta positiva ai problemi in corso (vittoria in tempo di guerra, prosperità in carestia).
Bullismo? Prese in giro? Leggendo i tanti casi correlati, pubblicati regolarmente negli anni sui giornali, c’è chi ne soffre e chi, con ironia, affronta le eventuali prese in giro, finendo per affezionarsi al nome. L’ambiente come sempre fa la differenza. Personalmente, da madre di due bambini italo- giapponesi dal doppio nome e cognome, mi sono posta il problema. Ho chiesto ripetutamente a mio figlio di 8 anni se preferisse accorciarlo, visto che gli aveva attirato sporadici dileggi. Eppure, nonostante l’iniziale fastidio, ha sempre risposto che ne è orgoglioso.
Tradizionalmente, il nome lo si attribuisce entro sette giorni dalla nascita e molti in Giappone sono attenti al numero dei tratti che lo compongono. Lo si scrive poi su un foglio verticale di spessa carta washi (h?shoshi) e lo si espone sull’altare domestico, quasi a depositare il significato e la nuova vita. Accade durante la Settima notte (o-shichiya) quando la famiglia si raccoglie per il primo pasto e celebra un’esistenza che, nell’antichità, non era scontato superasse i sette giorni. Ponderare una settimana dopo la nascita il nome di un figlio pare, oggi più che mai, una consuetudine corretta.