Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 27 Mercoledì calendario

Intervista a Cochi Ponzoni


Ci sono amicizie che durano una vita: iniziano da bambini e accompagnano durante tutte le fasi dell’esistenza, anche quando i protagonisti paiono allontanarsi. Così per Aurelio “Cochi” Ponzoni e Renato Pozzetto, Cochi & Renato per il pubblico, indissolubilmente legati da una lunga stagione di gag e canzoni stralunate, in tv e a teatro. Una amicizia mai interrotta, anche quando Renato era diventato divo del cinema nazionalpopolare e Cochi un sofisticato interprete teatrale, neppure ora che non salgono insieme su un palco da 8 anni. Cochi è un vispo 82enne che pensa alla prossima stagione teatrale, Renato qualche colpo alla salute l’ha avuto. «Però non chiedetemi nulla di lui, oggi. Non ne voglio parlare, non è un bel periodo», taglia corto Cochi.E allora iniziamo dagli albori: dove e quando?«Prima di noi, erano amici i nostri genitori. Poi durante la guerra, causa bombe, noi e loro siamo sfollati da Milano a Gemonio, nel Varesotto. Così io e Renato siamo cresciuti insieme: in pectore e da subito, una coppia. Finita la guerra, tornati a Milano, dato che non abitavamo vicini, abbiamo diradato: i miei amici di quegli anni erano Pietruccio e Lallo dei Dik Dik, Moni Ovadia, Ricky Gianco. Però poi ci si ritrovava in estate, sempre a Gemonio. Il salto è stato verso i 14 anni, quando eravamo iscritti nella stessa scuola, il Cattaneo, lui studi da geometra, io da ragioniere. Malgrado allora non si usasse, la sera uscivamo e facevamo tardi per osterie, dove ci aveva introdotti amico un po’ più grande».E i vostri genitori?«Qualche scappellotto o ciabattata l’ho presa. Ricordo una volta, mentre rientravo sicuro di averla fatta franca, un agguato teso da mia madre: uscì da dietro una tenda urlando. Fu un mezzo infarto. Ma non servì a nulla: l’animo ribelle era irrefrenabile. Alla fine in famiglia si sono arresi. Erano luoghi mitici, le osterie di allora, dove si suonava, si cantava, si discuteva, frequentati un po’ da tutti: mala, giornalisti, intellettuali e artisti, Bianciardi, Fo e Rame, Manzoni e Fontana, Buzzati, Tinin e Velia Mantegazza, Jannacci... Abbiamo conosciuto un sacco di gente. E fatto le nostre prime esibizioni».Il debutto?«Erano i tempi dell’Oca d’oro. Il nostro debutto fu con El Portafeuil, un nostro cavallo di battaglia: Renato cantava e descriveva il contenuto del portafoglio, io intanto lo prendevo in giro. “Vi ve mandi a Sanrem” ci disse convinto Lucio Fontana. In modo naturale e senza elucubrazioni, la nostra comicità era già quella che avremmo portato al Derby, in radio e poi in tv».C’è un terzo nome che torna spesso: Enzo Jannacci. Avrebbe firmato anche molte delle vostre canzoni più note, da «La canzone intelligente» a «La gallina».«Più grande, ci vide e gli piacemmo. Fu una specie di colpo di fulmine. Per almeno una decina d’anni fu il nostro musicista e noi ne eravamo ben felici. Diventammo inseparabili. Ricordo un viaggio a tre alla scoperta della Swinging London».Nei primi Anni 70 lei e Renato però lasciate Milano per Roma e iniziate a lavorare ciascuno per suo conto: si rompe qualcosa tra voi?«C’era stata come una involuzione, gli yuppies e i paninari, la Milano da bere e dei soldi esibiti, meno incline alla sperimentazione e a quei posti di confine che erano i cabaret. Spirava un’aria che non ci piace più tanto. Milano era cambiata e io e Renato ci trasferiamo a Roma. Comincia per noi un periodo molto felice, in cui ciascuno riesce a coronare il suo sogno: il cinema Renato, il teatro io».Si disse che avevate litigato?«Ma quando mai? Nel 1974 lui aveva sperimentato il successo con Per amore di Ofelia, io avevo fatto Cuore di cane. Di comune accordo avevamo deciso di diversificare le nostre strade. Tant’è che poi abbiamo fatto ancora cose insieme, tipo Sturmtruppen».Però più niente teatro, almeno fino al 2000 e passa.«In tv avevamo fatto Nebbia in Val Padana. Era stato bello. “Perché non proviamo a fare qualche serata insieme come ai tempi?”, ci chiediamo. Affittiamo il Teatro Nazionale a Milano per tre sere, aspettandoci qualcuno dei nostri vecchi fan un po’ ingrigiti: in un teatro di oltre mille posti facciamo il tutto esaurito. Siamo andati avanti per due mesi. Così per 14 anni abbiamo ripreso a esibirci insieme a tempi alterni. Lo spirito di allora, nello show e tra noi, riviveva immutato».C’è un equilibrio ricercato tra lei e Renato?«Niente di voluto, lo ripeto. La nostra è una simbiosi naturale. Lui è quello preciso, anche nei dettagli di lavoro; io lo svagato, che va fuori dal seminato, il curioso sperimentatore».Davvero, mai nessuna divergenza?«Mai, neppure di idee. Tutto quello che facevamo era condiviso, all’insegna del divertimento. Era una specie di flusso continuo di idee e parole strampalate, a chi la inventava più grossa. Se uno non rideva, non si faceva. Semplice, no?».Solo il libero flusso della «stupidada»?«Un delirio da Ionesco? Se si analizzano le nostre storie, anche le più surreali, una motivazione la si trova sempre, magari nascosta ma c’è. Anche dietro a una semplice parola che pare del tutto casuale. Insomma, sembravamo illogici, ma per noi una logica c’era e chiarissima: un riferimento, una musicalità, un significato manipolato. È un divertimento privato che pratico ancora».Se guarda indietro?«Vedo due bambini felici che corrono in bici insieme. Malgrado la guerra, abbiamo avuto un’infanzia fortunata. Una bella premessa per l’amicizia di una vita». —