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 2023  dicembre 27 Mercoledì calendario

Divisi in fazioni sull’educazione affettiva

Ho la sensazione che l’enorme impatto emotivo suscitato dalla tragica vicenda di Giulia Cecchettin si stia già in qualche misura sfilacciando. Molti s’impegneranno, lo so, e daranno vita a iniziative e dibattiti destinati a crescere, spero, sull’onda dell’esempio del padre Gino e della sorella Elena. Ma l’opinione pubblica quanto manterrà memoria? Sono passate poche settimane, altre donne sono state uccise (da ultimo Vanessa Ballan), e l’attenzione dei media è già tornata flebile. Tutto dura un niente, in questa nostra epoca di clamori mediatici.
Siamo percossi da un brivido ogni tanto, patiamo qualche momentaneo shock, proviamo un certo orrore, per qualche giorno; ma poi i nervi si distendono e torniamo a galleggiare tra le miriadi di immagini, pubblicitarie e cronachistiche, senza nemmeno tanto distinguere le une dalle altre. Una cosa è l’orrore, altra cosa è il «terrore tragico» che, ci ricorda Joyce, «è il sentimento che inchioda la mente in presenza di tutto ciò che è grave e costante nella sofferenza umana». La violenza sulle donne è «grave e costante», e sarà bene che ci «inchiodi la mente».
Uno dei temi su cui dovremo continuare a interrogarci (possibilmente senza stridori mediatici e obnubilamenti ideologici) è quello dell’educazione. Non voglio entrare nei particolari, mi limito a notare che esistono due schiere contrapposte, oggi, sul tema: da una parte, chi desidera fortemente che nella scuola sia introdotta l’ora di educazione (sentimentale, sessuale, relazionale, obbligatoria o facoltativa…); e dall’altra parte chi è poco convinto, anche perché teme l’indottrinamento. E fin qui niente di strano, succede che la si pensi diversamente. La cosa che mi colpisce è che la schiera, diciamo così, “educatrice” è formata da persone che si collocano quasi tutte a sinistra, e l’altra schiera, pur essendo meno definita, direi che comprende sicuramente gente di destra, ma forse soprattutto persone “neutre”, di cui si può solo dire che “non sono di sinistra” o che si mantengono lontane dalla politica. E comunque non c’è crepa, in queste due schiere, mai il soffio di un dubbio, meno che mai un’eccezione, non so, qualcuno non di sinistra che sia per l’ora di educazione, e qualcuno di sinistra che invece sia contrario (o almeno, io non l’ho incontrato). Perché tanta monolitica contrapposizione, in una questione così delicata e complessa?
Sto rileggendo un libro capitale di George Steiner, un libro del 1961, di critica e storia delle letterature, che però, in un suo modo recondito e del tutto imprevedibile (come sempre fanno i grandi libri), mi aiuta un po’ a capire: Morte della tragedia. Mi manca molto, Steiner. Ogni tanto, per rincuorarmi, me ne vado leggere qualche pagina. È sempre stato il mio dio. Lo ricordo, dal vivo, quando fece una delle sue lezioni magistrali a Torino. E non vorrei che ci dimenticassimo anche di lui.
In Morte della tragedia Steiner traccia la storia del genere tragico, dai tempi dei grandi tragici greci, Eschilo Sofocle e Euripide, fino al Novecento, e colloca la morte della tragedia nel Seicento, dopo Shakespeare. Poi arriva il razionalismo scientifico, gli ideali della Rivoluzione francese, l’allargamento del pubblico, il trionfo della prosa sul verso, la scarsa attitudine dell’uomo moderno verso il linguaggio simbolico e allegorico, e la tragedia muore. Da allora solo strascichi: melodrammi, e stanche riscritture di trame classiche. Vince il realismo, e il genere romanzo s’impone.
Il discrimine è tra due opposte visioni della vita. Da una parte la visione degli antichi greci: l’uomo è solo contro le avversità, vulnerabile, destinato alla caduta; non può comprendere né dominare le trame del destino; è un uomo esposto a forze misteriose, che oltrepassano l’umana conoscenza e si sottraggono al dominio della ragione e della giustizia. Non c’è nessun appiglio. Non ci salva l’obbedienza alle leggi, né il rimorso e la conseguente redenzione (che invece esiste nella visione giudaico-cristiana, dove Dio alla fine ricompensa Giobbe), né le istituzioni sociali, le leggi morali o il progresso scientifico. Dice Steiner: «Il destino di Agamennone non sarebbe mutato se le leggi sul divorzio fossero state più indulgenti, la psichiatria sociale non risolve la tragedia di Edipo».
Dall’altra parte, la visione del mondo che s’instaura nel Settecento, soprattutto con Rousseau: l’idea che il male non sia costitutivo della natura umana ma abbia un’origine sociale, non metafisica; che l’infelicità e l’ingiustizia non siano un destino ineluttabile ma il risultato di deleterie azioni politiche e sociali, e che quindi attraverso l’educazione e l’impegno l’uomo possa migliorare le cose. Inizia la fede nel progresso, quel sogno di poter cambiare il mondo, a cui il marxismo fornirà il contributo decisivo.
Al di là delle teorie letterarie, mi pare che il discorso steineriano, trasposto, possa aiutare a chiarire il problema delle schiere oggi contrapposte: da una parte la compagine dell’ottimismo illuminista rousseauiano-marxista che – preso da hybris prometeica – crede nella possibilità di forgiare l’uomo nuovo, quindi esalta l’educazione; dall’altra la compagine che, seppur non rinunciando ad agire per migliorare la società, teme le derive totalitarie che si annidano nel mito dell’uomo nuovo, riconosce nelle vicende umane un quid di imperscrutabile nei cui confronti non siamo onnipotenti, e perciò è scettica su un’educazione ideologica e costringente. È un po’ come se, in questo neoilluminismo dove ci troviamo a vivere, fosse rimasto in alcuni un antico retaggio, un granello di quel pensiero greco che pure sta alle origini della nostra civiltà, ma che ormai non sappiamo riconoscere come tale, e chiamiamo (sminuendolo) senso comune.
Insomma, forse siamo andati fuori tema. Ma è possibile che queste due visioni del mondo siano entrambe sopravvissute, e oggi quatte quatte convivano. L’ipotesi, naturalmente, non ci aiuta a risolvere il problema di come eliminare la violenza sulle donne. Ma forse ci può portare a una maggiore accettazione degli altrui punti di vista, senza che una parte si senta portatrice di verità e giustizia, denigrando la parte avversa. Sarebbe già un buon risultato. Più che mai ora dobbiamo collaborare, e non troncare l’esercizio del dialogo. —