la Repubblica, 26 dicembre 2023
Il trono vacante dei moderati
L’estremismo è per definizione esasperato, inconciliabile, convulso: ma in realtà è soprattutto veloce, perché segue scorciatoie ideologiche, si basa su calcoli sommari, riassume in pochi concetti situazioni complesse, non si pone il problema delle compatibilità e usa tutti i mezzi di cui dispone per giustificare il fine.
Così, nella traduzione italiana di questa deriva del pensiero politico (e soprattutto dell’azione) stiamo assistendo a una metamorfosi del polo di destra rispetto all’immagine che proiettava nell’ultima campagna elettorale, e persino nella fase d’avvio del governo nato dalla vittoria di Giorgia Meloni.
La novità è la scomparsa dei moderati dalla scena della destra italiana, come se non avessero più niente da dire, nessun valore da rappresentare e una porzione di eredità storica talmente ridotta e marginale che non vale la pena difenderla, perché ormai è fuori mercato alla Borsa della politica.
Questa è la vera morte politica di Berlusconi, perché lui non si sarebbe mai rassegnato a veder eclissarsi la sua stella e rinsecchire la testimonianza della sua avventura titanica, finita fuori corso con la sua scomparsa, come se ci fosse l’autore ma mancassero i personaggi in grado di interpretare lo spettacolo, rovesciando Pirandello.
L’impraticabilità di ogni procedura democratica di designazione, di eredità o di scelta, insieme con l’impossibilità di veder crescere un delfino nel campo esclusivo del carisma egolatrico, hanno vanificato ogni meccanismo di selezione delle élite: lasciando sul palcoscenico vuoto di Forza Italia un vecchio copione scritto per un unico interprete, nell’incantesimo politico che vede agitarsi ministri e sottosegretari, senza che nessuno tra loro prenda mai la forma e l’autorità del leader. Che infatti non c’è.
Così ci troviamo immersi nel paradosso politico che vede consumato e isolato il partito-cerniera dell’alleanza, il quale possiede il codice interpretativo della destra e l’ha riunificata conciliando gli opposti (Fini e Bossi), e nel ventennio berlusconiano ha elaborato una cultura di governo, sia pure nelle forme anomale dettate dal Cavaliere.
Un partito che ha scelto subito come riferimento a Strasburgo l’anima occidentale ed europea del Ppe, di cui fa parte, ricevendo in cambio da questa appartenenza un certificato universale di moderatismo.
Oggi Forza Italia vede la presidente del Consiglio, il governo e la coalizione di destra passare di fatto all’opposizione dell’Europa, davanti al nuovo patto di stabilità approvato dal nostro Paese obtorto collo, e il rinvio della ratifica alla riforma del Mes.
Tutto questo senza che i cosiddetti moderati abbiano battuto un colpo vedendo il Paese che precipita ai margini dell’Europa, richiamando la storia recente della presenza europea di Berlusconi.
Per spiegare a Giorgia Meloni e agli alleati che l’inseguimento di una politica ideologica contro Bruxelles sta trascinando l’Italia in una posizione che nega la sua storia, e in primo luogo è contro la sua natura.
Naturalmente bisogna intendersi quando si parla di moderatismo in casa di Forza Italia: quel partito può essere considerato moderato come assicura nella sua auto-definizione?
Pazzo di sé, Berlusconi era certamente conciliante con l’orizzonte politico democristiano in politica estera, per diventare estremista radicale nel difendere se stesso e i suoi interessi dal codice e dai tribunali: e addirittura eversivo nelle prove più estreme, quando negava la sconfitta alle elezioni, non accettava le indagini e le imputazioni nelle aule di giustizia, anticipando Trump e la stagione del populismo antipolitico.
Ma dal punto di vista della percezione di sé Forza Italia ha vissuto la sua traversata del ventennio considerandosi sempre come la piattaforma di riferimento di tutti i moderati, con una mobilità e una spregiudicatezza che la Dc non aveva mai conosciuto.
Se quella era “una forza di centro che guarda a sinistra”, secondo l’ispirazione di De Gasperi, Berlusconi ha creato una forza di centro che guarda giorno e notte a destra.
E oggi è questo partito, con quella natura, che è ormeggiato nel porto del nazional-sovranismo più estremo, attendendo gli ordini della premier.
Eppure proprio la radicalizzazione della linea di governo, con Meloni che insegue Salvini nella gara a scavalco oltranzista, apre spazi vuoti nel Paese e nella stessa coalizione di governo, a disposizione di chi tenti di costruire una cultura della moderazione, sfuggendo alla tentazione costante di inscenare una rappresentazione drammatica della vicenda politica italiana.
Una cultura distinta e distante dal velleitarismo e dal cinismo, capace di individuare un nuovo punto d’equilibrio tra il concetto di ordine e il principio di libertà: e dunque contraria alla lettura estremista del Paese.
Ma quella cultura manca da trent’anni, a destra, con due leader che si contendono la posizione più radicale. Il trono del moderatismo è vacante.