Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 26 Martedì calendario

Quanto pesano gli auguri

Pochi lo ricordano, ma ci fu un tempo in cui gli auguri di Natale viaggiavano per posta. Riceverli era un piacere, spedirli una scommessa. C’era da pregare che arrivassero in tempo, o anche solo che arrivassero, quando li si imbucava nelle cassette rosse delle corrispondenza. Da anni non è più così. Basta un messaggino e in un istante gli auguri arrivano, con tanto di foto, video, voce, meme o GIF. È la normalità. Ma anche questo, come tutto, ha una storia. È il 3 dicembre 1992 quando Neil Papworth, ingegnere inglese non ancora ventitreenne, invia il primo sms. Sms sta per “Short Message Service”, “servizio di messaggi brevi”, e quello di Neil è brevissimo: due parole, mandate dal suo computer al cellulare di un collega, un archeologico Orbitel 901. Passerà un anno perché il primo messaggio da cellulare a cellulare sia registrato negli annali della telefonia. Da allora, l’ascesa della messaggistica istantanea è stata inarrestabile. Dati univoci non esistono, ma pare che ogni giorno vengano inviati 23 miliardi di messaggi, 270 mila al secondo. Questa è la media, figurarsi a Natale.
Come sono miliardi di messaggi? Se proviamo a immaginarli, davanti ai nostri occhi appariranno infinite scintille, impulsi elettrici simili a fiocchi di neve virtuali e leggerissimi, dissolti in un istante. La verità, però, è che questi fiocchi tanto leggeri non sono. Dietro ognuno di quei messaggi infatti c’è un mondo sommerso che chiama in causa la vita del pianeta, perché non c’è nulla di più collettivamente materiale di quello che chiamiamo “virtuale”. Le parole e le immagini sui nostri smartphone o computer esistono grazie a una rete di composti di silicio, fibre ottiche, minerali, metalli, plastiche, fili elettrici, cavi sottomarini, torri di trasmissione, satelliti e banche-dati a cui i nostri dispositivi si collegano attraverso una “nuvola” molto concreta, depositata in macchine potentissime. Mentre ciò avviene si consumano risorse, si producono rifiuti, si sconvolgono ecosistemi e si scavano gli abissi del pianeta. Abissi non solo spaziali, perché in ogni messaggio, email, telefonata c’è anche il tempo profondo della terra. È quella che gli studiosi chiamano “geologia dei media”, e che ci fa vedere i nostri dispositivi elettronici come piccole miniere portatili di terre rare e metalli preziosi. Se poi allarghiamo lo sguardo vediamo che questa geologia nasconde costellazioni di crisi, conflitti e dilemmi biopolitici che investono molti dei Paesi in cui oggi si soffre di più per il controllo delle risorse, dal Sudafrica al Brasile, e ancora Cina, Russia, Australia, i territori contesi ai nativi americani.
In questa costellazione, il Congo, con le sue miniere di coltan e gli schiavi che ci lavorano, è ancora un “cuore di tenebra” come ai tempi di Joseph Conrad. Ogni volta che usiamo un dispositivo elettronico, ci poniamo in continuità con tutto questo e ne diventiamo involontariamente partecipi.
Queste cose le sappiamo, ma ci pensiamo poco; forse perché, come esiste una geologia nei nostri dispositivi, così esiste anche un “inconscio geologico” (sono parole di Andrea Zanzotto) che ci riconduce al nostro rapporto, spesso rimosso, con il corpo della terra. Questo inconscio emerge in opere inquietanti come Quando la terra urlò di Arthur Conan Doyle, che nel 1929 immagina uno spregiudicato Professor Challenger (stesso protagonista de Il mondo perduto), intento a perforare chilometri e chilometri di crosta terrestre per provare la sua teoria: ossia che il pianeta è vivo, ed è simile a un colossale riccio di mare. E ha ragione Challenger, perché quando dalle viscere squarciate schizza un liquido che sembra sangue di pietra, la terra urla, selvaggia e ferita come un animale. Oggi quest’inconscio ha anche un’estetica. La ritroviamo nelle immagini potentissime di Edward Burtynsky, dove le pareti delle miniere di potassio russe scavate dalle macchine si squadernano come mandala o caleidoscopi; o nelle fotografie poetiche e ipnotiche di Sebastião Salgado, bianco-e-nero vertiginosi di intrecci umani e minerali nelle cave dove si aprono le vene dell’America latina. Sono opere che evocano il sublime ed esprimono il dilemma della nostra epoca: essere allo stesso tempo fruitori, vittime e complici di un sistema complesso che genera distruzione, ma anche piacere, libertà, bellezza, legami.
Ma allora che cosa dovremmo fare? Rinunciare ai nostri device, fare a meno dei nostri computer, o smettere di mandare messaggini di auguri? Un uso responsabile è giusto, ma eliminarli no, perché è anche grazie a questi computer, telefonini e dispositivi elettronici che si fa un giornale come quello che state leggendo, che si produce gran parte di ciò che chiamiamo cultura e che molti di noi riescono a coltivare i legami che ci tengono in vita. La verità è che tutto ha un impatto: le cose che ci salvano e quelle che ci dannano. Anche gli auguri postali inquinano. Forse il segreto di una vita più sostenibile sta proprio nel riconoscerne i dilemmi, e nell’apprezzare il peso di ciò che facciamo, sforzandoci di ridurlo. Bello, però, sarebbe provare a uscire dalla banalità dei nostri gesti quotidiani riflettendo con gratitudine sulla poesia costosa delle cose invisibili. Sulle stelle che ci portiamo in tasca e brillano non viste nei gusci dei nostri cellulari, sui viaggi istantanei delle nostre parole nello spazio che abbraccia la terra e sul fondo degli oceani, sulla creatività di uomini e donne che sognano nuovi modi per comunicare.
A proposito: è probabile che gli sms siano stati inventati proprio per scambiarsi gli auguri. Le due paroline del messaggio di Papworth, infatti, erano “Merry Christmas”, buon Natale.