la Repubblica, 26 dicembre 2023
Ode a Frankestein Jr
Non è Natale se non c’è Frankenstein Junior. Comodamente seduti in poltrona, dopo aver inserito il dvd nel riproduttore – a volte persino un vecchio vhs sopravvissuto a tutte le trasformazioni tecnologiche – ci si gode il film di Mel Brooks scritto insieme a Gene Wilder, fantasioso autore del soggetto nonché attore protagonista di questa parodia di uno dei pochi miti della modernità conosciuto anche dai bambini delle elementari.
Chissà cosa avrebbe detto Mary Shelley se avesse potuto vedere il suo moderno Prometeo fatto a pezzi dalla comicità dei due, coadiuvati da un incredibile Marty Feldman nella parte del servitore Igor, inventore estemporaneo di alcune delle più belle battute del film.
Uscito nel 1974 Frankenstein Junior, costato un milione di dollari, sbancò i botteghini cinematografici raccogliendo in breve tempo 90 milioni. Forse non è un caso che a trasformare il romanzo gotico in un nuovo divertente e sarcastico capitolo di amore e morte nel cinema americano siano stati tre ebrei figli di immigrati dall’est dell’Europa, comprimari dell’opera buffa che mescola insieme umorismo macabro, allusioni sessuali, battute memorabili, xenofobia, citazioni da film di genere, il tutto condito con ampi spruzzi di politically incorrect. L’idea geniale è quella d’aver girato il film in bianco e nero contro l’opinione dei primi produttori creando così una falsa copia del passato, ovvero una opera cinematografica di secondo livello. Pieno di allusioni quasi intraducibili come «Put the candle back», ovvero: «Metta a posto la candela»; oppure: «What Knockers!», resa con: «Mai visti due così», Frankenstein Junior conserva in italiano un’intraducibile parola composta: Schwanzstück, pronunciata sospirando da Inga, l’assistente del dottor Frankenstein. Si ride per le battute e immediatamente le si memorizza cosa che capita solo con le opere cult, per cui il divertimento consiste nel risentirle e quindi nel ripeterle.
«Che lavoro schifoso. Potrebbe essere peggio. E come? Potrebbe piovere», dice Igor mentre insieme al nipote del protagonista del romanzo di Mary Shelley estrae la bara dell’impiccato dalla fossa in cui è stato interrato, e subito si scatena il nubifragio. Indimenticabile poi quella dei lupi: «Lupo ulula. Lupululà? Là! Cosa? Lupu ululà e castello ululì. Ma come diavolo parli? È lei che ha cominciato. No, non è vero, non insisto. È lei il padrone».
E la gobba? Si può pronunciare questa parola in un film? Il dottor Frankestein: «Sono un chirurgo di fama mondiale, posso fare qualcosa per quella gobba». «Quale gobba?» risponde Igor. La gibbosità, poi, si sposta da destra a sinistra, e viceversa, nel corso della storia.
Perché continua a piacere Frankenstein Junior a cinquanta anni di distanza? Per la sua irriverenza verso tutto e tutti; per la esagerata parlata tedesca dell’Ispettore Kemp (Kenneth Mars); perché irride la ricerca della vita eterna; perché mette in luce il sessismo della cultura americana; perché esibisce un formidabile trio di personaggi femminili: Inga (Teri Garr), Frau Blücher (Cloris Leachman), Elizabeth (Madeline Kahn); perché la Creatura (Peter Boyle), dopo aver ricevuto parte del cervello del geniale dottor Frankenstein, e ceduto un po’ del suo innato potere sessuale – eccolo qui lo Schwanzstück – a letto con Elizabeth inforca un paio di occhialini e legge il Wall Street Journal: da povero demente a capitalista di successo. Insomma l’immancabile American way of life.
Quando Mary Shelley scrisse a 18 anni il suo immortale romanzo – poi rimaneggiato nel 1831 – aveva in mente un doppio tema, seppure in modo intuitivo: la paura del Mostro e il timore dell’incipiente sviluppo tecnologico. Ma cosa ha mosso Wilder e Brooks a riscrivere un mito del passato? Secondo i biografi, Wilder, inventore della trama, era stato un bambino pauroso, tormentato da incubi nel corso della sua infanzia, da cui il Mostro, poi diventato la Creatura. Inoltre c’è il tema del conflitto uomo-donna nel femminismo americano anni Settanta e nella prima stesura della sceneggiatura di Wilder il dottor Frankenstein soccombeva al Mostro che lo faceva precipitare in un dirupo e gli rubava la fidanzata. L’intervento di Brooks cambiò il finale e lo trasformò in una parodia del tipico happy end d’ogni commedia americana che si rispetti. L’alto e il basso si scambiano di continuo di posto e coesistono, come del resto avveniva nella stessa cinematografia americana degli anni Trenta cui il film s’ispira e a cui fa immancabilmente il verso. Come ha scritto Italo Calvino in Autobiografia di uno spettatore, quel cinema americano dei primi decenni del XX secolo «consisteva in un campionario di facce di attori senza uguali né prima né poi e le vicende erano semplici meccanismi per fare stare insieme queste facce in combinazioni sempre diverse». Ecco forse il segreto del successo sta nelle sue facce incredibili, a partire dal duo Gene Wilder e Marty Feldman: uno spiritato e isterico istrione e un compassato e insieme beffardo servitore. Sono loro che piacciono soprattutto ai bambini, che seduti davanti al grande televisore piatto di nuova generazione non colgono molte delle allusioni presenti nei dialoghi, e tuttavia ridono di gusto perché le facce sono tutto nel cinema, e non solo lì. Un film gioioso. Mentre lo giravano, tutta la troupe rideva a crepapelle e l’operatore era in difficoltà: spesso le scene venivamo mosse. Tutte da rifare, come le risate natalizie.