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 2023  dicembre 24 Domenica calendario

“IO NON PENSAVO NEANCHE DI FARE L'ATTORE, CURAVO LE LUCI DEL DERBY” – DIEGO ABATANTUONO SI RACCONTA A “CHI” - DURANTE LE RIPRESE DEL FILM IL MARATONETA, PER ENTRARE NELLA PARTE, DUSTIN HOFFMAN ANDÒ A CORRERE PER UN'ORA A CENTRAL PARK. QUANDO ARRIVÒ SUL SET, TUTTO SUDATO, IL SUO COLLEGA LAURENCE OLIVIER GLI DOMANDÒ: "MA PERCHÉ TI SEI MESSO A CORRERE? BASTEREBBE RECITARE, NON PENSI?". ECCO, IO NON SONO NÉ L'UNO NÉ L'ALTRO, LA MIA STRADA È QUELLA DI ESSERE NATURALE" – "REGALO DI NATALE" DI PUPI AVATI, IL PREMIO OSCAR CON "MEDITERRANEO" E LA SINDROME DI GIANNI MORANDI… -

Diego Abatantuono non ama molto le interviste. Per convincerlo abbiamo giocato il jolly di un'amica comune. E ne è valsa la pena. Perché è uno che, quando si concede, è come se ti invitasse a cena con i suoi ricordi. Nelle parole, che dispensa come ricette, scorre la storia

del cabaret milanese, di una città dolce e malinconica, dove il freddo e la nebbia, di fronte a un piatto caldo e un bicchiere di vino, diventano poesia. Diego è cresciuto con gente come Dario Fo ed Enzo Jannacci, ma anche con gli amici del Giambellino, come Ugo Conti, e ha trascorso le sue notti fra il Derby Club e Il bar Gattullo, sparando battute che contengono il sale della vita.

Così è nato un artista che ha saputo passare da Eccezz-ziunale... veramente e Attila flagello di Dio a Regalo di Natale con Pupi Avati e al premio Oscar con Mediterraneo. «Quando arrivi a una certa età e hai avuto la sindrome di Gianni Morandi, e cioè che ci sei sempre stato e non è successo niente prima di te. Sto entrando in quello stato mentale, prima di noi non c'era niente, neanche la gente».

In Improvvisamente a Natale mi sposo, nelle sale in questi giorni, Abatantuono veste i panni del vedovo Lorenzo, che convoca la famiglia nel proprio hotel per trascorrere le feste e annunciare il matrimonio con Serena (Carol Alt). Alberta, sua figlia (Violante Placido) vuole impedire che ciò accada. «In questo film», ci spiega l'attore, «c'è un certo realismo recitativo, con un unico momento fantasy che è quando Carol Alt si innamora di me, perché lì ci vuole fantasia (ride, ndr). Questo è anche il tema del film, perché mia figlia è dubbiosa sul fatto che una donna così bella possa essere attratta da me, pensa che sia arrivata dall'America a fare il colpo gobbo».

In questi giorni Abatantuono terrà anche la sua ormai celebre cena di Natale con gli amici di una vita, uno spettacolo unico per i fortunati invitati, nel suo ristorante a Milano, zona Navigli, Meatball Family, che ha appena festeggiato dieci anni di attività.

Domanda. Le sue tavolate sono leggendarie. Risposta. «Sono figlio unico, ho sempre cercato e amato la compagnia. Quando ero bambino, la sera, mia mamma lavorava e mio padre usciva, e io restavo

Sempre a stare in compagnia. Per me ogni occasione è buona per ritrovare gli amici. Non c'è niente di più bello di una cena scandita da risate, giochi, racconti, aneddoti e, alla fine, si canta e si suona. Mi sembra che la vita debba avere qualcosa in più oltre al lavoro».

D. Perché il piatto forte del suo ristorante sono le polpette? R. «Le polpette sono un piatto universale. Penso a Milano con i suoi bei mondeghili mangiati in una trattoria con la nebbia, il tram che passa, il panettone caldo. L'abbiamo chiamato Meatball Family per avere un tocco internazionale, ma per me resta un sapore di famiglia e di tradizione, come la pasta con le polpette che faceva mia nonna quando è emigrata al nord».



(…) Durante le riprese del film Il maratoneta, per entrare nella parte, Dustin Hoffman andò a correre per un'ora a Central park. Quando arrivò sul set, tutto sudato, il suo collega Laurence Olivier, che, invece, era fresco come una rosa, gli domandò: "Ma perché ti sei messo a correre? Basterebbe recitare, non pensi?". Ecco, io non sono né l'uno né l'altro, la mia strada è quella di essere naturale. I miei personaggi hanno un modo di fare realistico, parlo come parlerebbero nella vita».

D. Pupi Avati racconta di averla chiamata per Regalo di Natale, il film che l'ha lanciata come attore drammatico nel 1986, quando lei stava chiudendo con il cinema. Che cosa avrebbe fatto se Avati non l'avesse chiamata?

(…) Ho ringraziato così tanto Pupi in questi anni che adesso siamo pa-ri. Oggi dico che, forse, è andata bene anche a lui. Venivo da due anni nei quali avevo realizzato dodici film con il personaggio del "terrunciello" e dovevo cambiare per non finire a fare quello tutta la vita. Se non mi avesse chiamato Pupi Avati, magari mi avrebbe chiamato qualcun altro. E come dire che, se non fossi nato al Giambellino, magari mia mamma non avrebbe lavorato al Derby e io non avrei fatto l'attore con Enzo Jannacci, Dano Fo e tutti gli altri. Magari sarei finito a fare il parrucchiere delle dive a Hollywood (ride, ndr). E, magari, se Pupi avesse fatto il film con un altro, e fosse andato male, sarebbe tornato a fare il jazzista».

D. Ha iniziato al Derby, appunto, con Jannacci, Cochi e Renato, i Gatti di Vicolo Miracoli. Sapevate che stavate scrivendo la storia dello spettacolo? R. «lo non pensavo neanche di fare l'attore, curavo le luci del locale. Sono entrato che avevo 15 anni perché non mi piaceva studiare. Quando vivi un momento non sai che cosa succederà dopo. Per me era un posto straordinario perché passavo da vedere Paolo Villaggio, i Gufi, Boldi e Teocoli, Cochi e Renato, Bruno Lauzi, Felice Andreasi. Avevo 20 anni, conoscevo tutti i cabarettisti italiani, mi chiese di ringiovanire il cast.

A mio zio gli stava sui maroni che la gente veniva al Derby, diventava famosa, e poi andava a fare il cinema e la tv. Ma il ruolo del cabaret era proprio quello, un trampolino di lancio. Meglio di adesso, dove la gente si butta senza trampolino e senza l'acqua, passando da Tik Tok. Io mi sono trovato in scena, poi mi sono scritto uno spettacolo e ho visto che andava bene, sono passato ai teatri e si è sparsa la voce. Così mi hanno proposto il cinema. Ma ti sto già raccontando una storia, non è successo all'improvviso».

D. Un anno fa ha pubblicato un libro molto poetico, Si potrebbe andare tutti al mio funerale, dove immagina la sua morte. Troisi aveva girato Morto Troisi, viva Troisi! (…) A Villaggio piaceva raccontare i grandi funerali, io mi sono immaginato il mio come Fellini in Amarcord. Non si sa bene se sia morto veramente o sia soltanto un sogno. La trama nasce con me, steso sul letto, e mia mamma, Rosa, che mi mette un panno azzurro con il Vicks per scaldarmi, un panno di lana di quelli che si tramandavano nelle famiglie. Lo ricordo molto caldo, che pizzicava un po'. Con questo panno addosso comincio a sentire le voci di una festa

(…) D. Saltimbanchi si muore, come recita il titolo di un vostro spettacolo, o si nasce comici e si muore drammatici? R. «Drammatico e comico lo fai in vita, non è che tu faccia film drammatici da morente, nel senso che, quando sei cotto, non fai più né l'uno né l'altro (ride, ndr). Saltimbanchi si muore vuol dire che, se hai quella testa, te la porti sempre dietro, non è frutto dell'ingenuità e della mancanza di cultura, è proprio un modo di vedere la vita. Essere saltimbanchi è un privilegio che ti devi portare fino alla fine».