Domenicale, 24 dicembre 2023
Storia del Premio Bagutta
C’era una volta, un centinaio di anni fa, un gruppo di scrittori e pittori di stanza a Milano, squattrinati come lo erano allora gli artisti; e c’era nella stessa città un ristoratore toscano, Alberto Pepori, che aveva aperto una trattoria in via Bagutta – una strada che oggi, vicina al quadrilatero della moda, scintilla di moda, antiquari e gioielli, ma che all’epoca, nonostante la posizione centralissima, era ben più rustica.
Era semplice anche quella trattoria, e i suoi prezzi moderati; pronti ad abbassarsi e a volte perfino azzerarsi quando arrivavano avventori al verde: come, appunto, quegli artisti, giornalisti e scrittori, capitanati da Riccardo Bacchelli e Orio Vergani. L’incontro era quasi inevitabile; ed era fatale che molti di loro si affezionassero al locale, frequentandolo quasi ogni sera; e che, tra un fiasco di Chianti e una ribollita, si inventassero un premio letterario, come racconta Orio Vergani: «C’erano undici amici. Qualcuno dice «Perché non fondiamo un premio letterario?». «Come lo si chiamerebbe?». «Si potrebbe chiamare premio Bagutta. In Italia non c’è nessun premio letterario, e questo avrebbe il merito, soprattutto, che lo daremo noi, con i nostri soldi...». «E chi sarebbero i giudici?». «Noi».
Il premio Bagutta, il più antico riconoscimento italiano per la scrittura, nasce con questa semplicità. Siamo a fine 1926; la prima assegnazione viene fatta a gennaio del 1927.
E poiché l’idea è bella, ma i soldi per saldare i pranzi rimangono pochini, i giurati prendono l’abitudine di pagare il conto in natura: a ogni pranzo uno di loro, Mario Vellani Marchi, artista figurativo di buona fama, disegna su un menù il ritratto di qualche giurato, o degli ospiti che li hanno accompagnati a tavola: una volta Curzio Malaparte, un’altra Arturo Martini, o ancora Francesco Messina, e così via – il gotha delle nostre lettere e arti. E il disegno, o, come la si battezza allora, la “lista”, finisce al sor Pepori, che di buon grado riceve quella strana forma di pagamento e la appende alle pareti.
Pian piano, i muri del locale si affollano di quei ritratti; se la cassa perde qualche soldo dai mancati pagamenti, da subito il locale diventa meta di pellegrinaggio da mezza Italia. Ecco nel 1930 il giovane Cesare Zavattini in arrivo dalla provincia emiliana: «Che fulgori, che colori sulle pareti. Sedetti a uno spigolo, non osavo alzare la faccia dal piatto. Ogni tanto vedevo con la coda dell’occhio la mano di Bacchelli intingere il gambo di un sedano nell’olio brillante…».
Passano gli anni, il Premio si autosospende, per non subire indebite influenze da parte del fascismo, poi c’è la guerra, ma le liste continuano ad aumentare: in aggiunta a quelle di Vellani Marchi, ogni tanto ne disegna qualcuna Anselmo Bucci, altre le farà Giorgio Tabet.
Anche i personaggi ritratti si moltiplicano: uomini di scrittura come Montale o Montanelli, ma anche personaggi della cronaca, da Walter Chiari a Ingrid Bergman o Fausto Coppi. Quando, dopo la guerra, il Premio riprende, è una tradizione consolidata, con giurati che si chiamano Buzzati o Soldati e vincitori come Carlo Emilio Gadda o Italo Calvino, inesorabilmente snobbati da tutti gli altri riconoscimenti letterari. Per tutti, cenone di premiazione con la società intellettuale milanese.
Per quasi 90 anni, tra alti e bassi, il Premio fila via liscio: ma è troppo bello per durare. Le generazioni passano e sul fronte della ristorazione l’ultima dei Pepori non riesce a continuare la miracolosa formula dei fondatori: la qualità cala, i prezzi si impennano. Nel 2016 una progressiva emorragia degli avventori porta alla chiusura della trattoria.
E le liste? Tutte in un’asta fallimentare, dove i giurati di oggi – che non sono al verde come i loro antenati, ma insomma – non possono certo riscattarle. Ma questa è una favola a lieto fine: Martina Rocca, insieme al marito Gianfelice, le compra all’asta con il solo scopo di salvarle e metterle a disposizione della città, esponendole alla Bocconi. Da lì, Elena Pontiggia cura una pubblicazione elegante (Allemandi), che raccoglie le cinquanta tavole meglio riuscite.
E il lieto fine prosegue: ora, come racconta in questa pagina Marco Magnifico, i coniugi Rocca hanno donato le tavole al FAI, che le esporrà in Casa Crespi.
E il Premio? Lieto fine anche per lui: soccorso da Francesco Micheli, trova nella sua sede operativa in via Giovannino De Grassi un luogo dove proseguire. La Milano con il cuore in mano sarà un’immagine che pecca di retorica, ma di fatto è ancora viva.