Domenicale, 24 dicembre 2023
Scacchi e design
Naturalmente, c’è lui: Marcel Duchamp. Se si parla di scacchi e arte, arte e scacchi, il primo nome che deve affiorare alla mente di qualunque appassionato è il suo. Instancabile scacchista, artista immenso ritiratosi ben presto (almeno pubblicamente) dalla scena (gli scacchi, invece, non li abbandonò mai), aveva spesso incrociato le due cose: con la costruzione, per esempio, di scacchiere e relativi pezzi (da viaggio e no), con la scrittura di un libro piuttosto complicato: L’opposition et les cases conjugueés sont réconciliées (1932), redatto con Vitaly Halbertstadt e copertina disegnata dallo stesso Duchamp (ovviamente): una compilazione di finali di partita (che forse ispireranno lo stesso Beckett), che raramente capitano nelle partite reali, ma, non di meno, sono di interesse speculativo per l’appassionato. E poi con una mostra rimasta celebre e inimitabile, nel 1944, «Imagery of Chess» alla galleria di Julien Levy di New York, organizzata da Levy, Ernst e Duchamp (i due artisti si sfidavano regolarmente sulla scacchiera), e che fu un trionfo. Se non di pubblico (certo non si può paragonare ai numeri di oggi) di critica e, soprattutto, di “resilienza”. È una mostra molto importante, proprio perché influenza, direttamente o indirettamente, l’immaginario scacchistico futuro, visto dal lato artistico, e del design.
Perché gli scacchi, va da sé, sono dei veri e propri oggetti di design e, come tali, subiscono le mode o sortiscono da colpi di genio (progettuale), scontano la banalità e la standardizzazione, o arrivano ad alti livelli di simbologia. Un libro magnifico di Romain Morandi, Chess Design, ha fatto il punto su evoluzione e soprattutto esiti artistici (su quelli artigianali esiste anche un museo, a Rotterdam, che naturalmente ho visitato, andandomene non so se esaltato o infastidito, e forse le due cose insieme, per il molto ciarpame pop che, però, aveva comunque un suo inestricabile fascino...), che, nel Novecento, sono stati davvero notevoli.
Quando parliamo di scacchi – e, “visivamente”, ci figuriamo gli scacchi –, stiamo, con tutta probabilità, parlando dei pezzi della serie Staunton (Duchamp li sta usando in una celebre e bellissima foto che lo riprende da sotto, intento in una partita contro sé stesso). Presero il nome del grande giocatore inglese ma furono disegnati da Nathaniel Cook. Il brevetto – certo, il brevetto – di quella serie porta la data del 1° marzo 1849, in conformità con quanto prevedevano le leggi inglesi sul design ornamentale. Ripassiamoli: il pedone, il pezzo più piccolo, annuncia la forma geometrica che avranno tutti gli altri. Alla base un cerchio, con una scanalatura, che ne preannuncia un altro, di dimensioni leggermente minori. Inizia così, come una colonna, lo slancio verso l’alto: la colonna è fatta da due linee curve che tendono a divergere; in alto sono ricongiunte seccamente da una sorta di corolla. Al vertice una palla. La Torre mantiene identici i fondamenti di partenza, ma le linee, unico pezzo, sono dritte e quasi parallele, solo stringono verso la fine, dove la corolla è una merlatura leggera; il cavallo presenta un superbo profilo, con la criniera lungo tutto il dorso, la bocca aperta mostra i denti, l’espressione è quella di un animale in battaglia, che suda, e dalle froge, piuttosto marcate, sembra proprio uscire il fumo di un combattimento in un campo nebbioso; l’alfiere annuncia, nella parte che “disegna” la testa, i fregi circolari che avranno anche le figure maggiori, quasi una gorgiera: la testa, o l’elmo, o, meglio ancora, la mitra, sormontata da una mezza sfera, presenta un taglio leggermente angolato. Seguono la Regina e il Re. Lui è il più alto pezzo della scacchiera, con i suoi 11,5 cm. Lei ha testa sormontata da un diadema e da una sferetta, lui, per contro, da una superba corona nella quale si intuisce uno sbuffo come di velluto e una croce di diamanti segno distintivo di regalità; inglese of course. Il designer aveva utilizzato, forse inconsciamente, una serie di concetti architettonici di prestigio che risultavano assai familiari ad una classe alto-borghese colta, benestante e in continua espansione. Gli architetti londinesi dell’epoca avevano preso l’abitudine di progettare gli edifici più lussuosi secondo lo stile neoclassico. L’aspetto dei nuovi scacchi si rifaceva a questo stile e i pezzi erano echi della società vittoriana: un’elegante mitra da vescovo, le corone del re e della regina, la testa del cavallo incisa sull’esempio degli antichi marmi greci e un castello dalle linee snelle e classicheggianti, capaci però di esprimere forza e sicurezza. La forma dei pedoni è la stessa che ritroviamo oggi a Londra sui balconi degli edifici vittoriani. Gli scacchi, in ebano e legno di bosso, vennero appesantiti con del piombo, in modo da garantire una maggiore stabilità, mentre la base di ciascun pezzo fu ricoperta di feltro. In questo modo, i giocatori avevano l’impressione che i pezzi potessero quasi fluttuare sulla scacchiera. La serie Staunton fu scelta dalla Federazione Scacchistica Internazionale, nel 1924, come ufficiale, da utilizzarsi in tutti i futuri tornei. La vediamo ancora oggi.
Eppure la forma degli scacchi (e gli stessi nomi dei pezzi: in russo esiste il pezzo “barca”, il nostro “alfiere”, un portabandiera il cui nome, al-fil, deriva però dall’elefante, è un vescovo o un folletto, i cavalli erano stati pure elefanti e poi carri, consiglieri e così via...) non era sempre stata quella. Per esempio, nella grande stagione progettuale del Bauhaus, i pezzi rivisitati da Josef Hartwig nel 1924 erano di una semplicità simbolica sublime. Capolavoro insuperato. Non pedoni, torri e cavalli, ma, al loro posto, figure geometriche elementari. Cubi, sfere, diagonali: Hartwig procede per astrazione e semplifica i pezzi: così il cavallo non ha forma animale, ma è un solido a forma di “L”; l’alfiere ha la forma della “X”: in pratica, ogni pezzo, esemplifica nella sua foggia, la sua possibilità di movimento.
Nella mostra di Duchamp, gli scacchi di Hartwig non c’erano, in compenso ecco, tra gli altri invitati, due artisti al debutto dal nome che sarebbe diventato noto, come Robert Motherwell e Arshile Gorky, con lavori bidimensionali, mentre altri, come Max Ernst (che firmava in locandina), Man Ray, André Breton, Yves Tanguy, Isamu Noguchi, Alexander Calder (con quei cavalli quasi proboscidati, e i colori rosso e blu, foto nel testo) avevano proposto pezzi tridimensionali: nuove scacchiere, nuove possibilità per i pezzi. Alla mostra, Morandi dedica una sezione nel libro, ed è un peccato tacere dell’altro ben di dio di scacchi che ha scovato, in lungo e in largo tra epoche e creatori, dai vichinghi a Zaha Hadid, da Yoko Ono a Yayoi. Perciò, se volete regalare qualcosa che faccia sbavare e gioire l’appassionato, siete avvertiti. Spazio finito: la mossa tocca a voi. Io, quella giusta, ve l’ho appena suggerita.