Domenicale, 24 dicembre 2023
Sant’Antonio, l’eremita di Flaubert
«Ho appena finito Sant’Antonio, vieni!», aveva scritto Gustave Flaubert ai suoi due amici, ansiosi di ascoltare quella misteriosa opera, ispirata da un quadro di Bruegel, Le tentazioni di Sant’Antonio, visto a Genova quattro anni prima, nel 1845. Non sapevano che lo avrebbero dovuto ascoltare per trentadue ore, ogni giorno, dalle 12 alle 16 e dalle 20 alle 24. Visibilmente eccitato e soddisfatto del suo lavoro, Gustave aveva gridato: «Se non lanciate urla d’entusiasmo vuole dire che niente può commuovervi!». Leggeva ad alta voce senza interrompersi, ma era inteso che gli altri avrebbero potuto pronunciarsi solo dopo averlo sentito fino alla fine. I due avevano assistito a un’incessante fantasmagoria, in cui sangue, oro e sesso si incarnavano in immagini allettanti. Nemmeno la regina di Saba – «Io non sono una donna, sono un mondo. Basta che i miei abiti cadano, e scoprirai nella mia persona un’infinità di misteri!» – riusciva a sedurre il santo.
Ma, dietro il silenzio degli amici, Flaubert aveva avvertito la loro delusione, che si rinnovava ogni volta che uno dei racconti, invece di evolversi, cedeva il passo a quello seguente. «E allora?», li aveva interrogati ansiosamente, alla fine di ogni seduta, la madre di Gustave, ma loro non se la sentivano di risponderle. Al termine della lettura, Flaubert aveva battuto il pugno sul tavolo: «A noi tre adesso, ditemi francamente cosa ne pensate!», ma quando gli avevano risposto che era meglio bruciare quel manoscritto senza capo né coda, aveva sussultato lanciando un grido d’orrore, poi, sconvolto, aveva replicato: «Però è bello!». I due critici l’avevano ammesso, specificando però che quel libro era solo un assemblaggio di frasi squisite, indipendenti tra loro. «Avete ragione, mi sono fatto assorbire dal soggetto, me ne sono innamorato e non ci ho più visto chiaramente. Ammetto i difetti che mi indicate, ma sono inerenti al mio carattere; come rimediare?».
Era nata così, da quella tremenda delusione, la decisione di scrivere su una vita prosaica, Madame Bovary, ma Flaubert non avrebbe mai rinunciato all’opera che, con ogni probabilità, prediligeva più di ogni altra, come spiega Bruno Nacci nella sua introduzione, brillante come la traduzione, di uno dei testi più raffinati e difficili dell’Ottocento.
L’edizione definitiva del 1874 sarebbe stata preceduta da un’altra nel 1856. In realtà il romanziere avrebbe potuto affermare: «Saint’Antoine c’est moi»: l’eremita, ossessionato dalle tentazioni a cui lo sottopone il diavolo, era molto più vicino a lui di Emma Bovary. Come Antonio, Gustave, volontariamente isolato nella sua tebaide di Croisset, sapeva resistere ai richiami del successo e del piacere; quando la sua amante, la scrittrice Louise Colet, si era presentata non invitata al cancello della sua casa, l’aveva respinta malgrado la fitta pioggia. Gustave non tollerava intrusioni nel suo ritiro; e l’amore terreno, inoltre, gli sembrava debole e inconsistente in confronto all’amore sacro per l’arte.
Ogni anno Flaubert andava a Rouen a vedere un marionettista soprannominato Papà Sant’Antonio perché raccontava sempre la storia dell’eremita. A una parete dello studio era appesa un’incisione di Jacques Callot sulle traversie del santo, che si era comprato nel 1846. Quando i prussiani avevano invaso la Francia, Gustave aveva sepolto in giardino il manoscritto della Tentazione perché non cadesse nelle mani dei nemici, che in realtà non avrebbero fatto molti danni, limitandosi a lasciare dietro di sé il persistente odore del grasso dei loro stivali.
Provato dalla sconfitta della patria, Flaubert si era immerso «violentemente» nell’antichità per dimenticare le bassezze del presente. «Quest’opera stravagante mi impedisce di pensare agli orrori della Comune di Parigi. Quando troviamo il mondo troppo malvagio bisogna rifugiarsi in un altro mondo». Molto meglio l’eremita che, rifuggendo ogni frivolezza, viveva nel deserto, vestito di una pelle di capra, nutrendosi di un tozzo di pane nero, ma nella notte veniva assediato da ricordi, ossessioni e tentazioni di ogni genere in un continuo martirio: «Ecco più di trent’anni che sono nel deserto a lamentarmi sempre!».
Un giorno, Flaubert aveva raccontato il libro a un collega, Edmond de Goncourt: Antonio affrontava una prova dopo l’altra, senza mai lasciarsi tentare, ma finiva per farsi incantare dalle molecole, quelle «piccole masse globulose, grandi come delle capocchie di spillo e cigliate sui bordi». Allora l’eremita si faceva il segno della croce e tornava a pregare. «Lo strano, aveva notato Goncourt, è che sembra stupirsi del mio stupore».