Domenicale, 24 dicembre 2023
Il Ghirlandaio e l’adulterio di Maria
È un tondo di 90 centimetri di diametro, una tempera su tavola attribuita al Ghirlandaio. Siamo, quindi, nella seconda metà del Quattrocento e il titolo assegnato all’opera è Adorazione del Bambino. Quando ero prefetto della Pinacoteca Biblioteca Ambrosiana di Milano, sostavo spesso davanti a questo dipinto. Certo, gli altri capolavori di Leonardo, Raffaello, Tiziano (con un’altra Adorazione), Botticelli, Bassano, Luini, Brueghel e così via, custoditi in quella raccolta, potevano attrarre maggiormente. Nella tavola del pittore fiorentino c’era, però, una sorta di interessante metatesto da scoprire che non era esaurito né dal titolo né dal semplice soggetto natalizio.
Affiorava, infatti, una robusta interpretazione esegetico-teologica, affidata però a segni da decifrare. È noto che i cosiddetti «Vangeli dell’infanzia di Gesù», in tutto 180 versetti distribuiti nei primi due capitoli di Matteo e Luca, sono un palinsesto molto raffinato di temi, di citazioni bibliche, di simboli, di personaggi ed eventi emblematici. La loro analisi è complessa e ha prodotto un’imponente bibliografia esegetica. Ora, una delle prospettive da considerare è quella dell’ammiccamento già al futuro di quel Bambino. Si impedisce, così, una lettura meramente storicistica (per altro, ardua) o, al contrario, un’interpretazione ingenuamente fiabesca e “infantile” della nascita e dei primi anni di Gesù.
Il Ghirlandaio (alias Domenico Bigordi), a suo modo, ha cercato di scovare questi rimandi. Ne segnaliamo una trilogia. Innanzitutto, se è vero che Maria è in adorazione del suo piccolo che la sogguarda con dolcezza, mentre lei ha gli occhi socchiusi, le mani giunte e le ginocchia piegate, Giuseppe rivela invece un ben diverso atteggiamento. Egli è a lato, seduto, piuttosto accigliato, con la mano sinistra che sorregge una testa pensierosa. Si ha, così, la sintesi perfetta del racconto di Matteo (1,18-25) che descrive il suo sconcerto iniziale sulla maternità della sua sposa.
Lasciamo la parola all’evangelista: «Maria, promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva accusarla pubblicamente, decise di ripudiarla in segreto». Sarà necessaria un’epifania angelica a costringerlo a concludere le nozze, evitando l’atto legale di ripudio. Per lui, quindi, l’accettazione di questo figlio fu travagliata e il pittore ne ha rappresentato lo strascico in quel ritratto. Ben più coreografica è, invece, al riguardo la narrazione dei Vangeli apocrifi.
Ne vogliamo offrire un’attestazione, tenendo conto del fatto che spesso questa letteratura minore è stata una fonte feconda per l’iconografia artistica. Facciamo riferimento a uno dei testi più famosi, il Protovangelo di Giacomo, scoperto da un umanista francese, Guglielmo Postel, morto nel 1582, un’opera da collocare nel II secolo. Ecco la pittoresca descrizione della reazione di Giuseppe: «Maria era ormai al sesto mese. Tornato a casa dal lavoro, Giuseppe la vide incinta. Allora si schiaffeggiò la faccia si gettò a terra su un sacco e pianse amaramente».
Ben diverso, comunque, è il suo comportamento rispetto agli infami femminicidi odierni. Poi egli si rivolge prima a sé stesso con un’autocritica: «L’ho ricevuta vergine e non l’ho custodita! Chi l’hai insidiata? Chi ha commesso questa disonestà in casa mia contaminandola?». Successivamente chiama Maria e la interpella: «Prediletta da Dio, perché hai fatto questo e ti sei dimenticata del Signore tuo Dio? Perché hai avvilito l’anima tua? Maria si mise a piangere amaramente: Io sono pura, non conosco uomo!». Il dialogo continua e Giuseppe le crede, ma è la sospettosa autorità religiosa a intervenire, dato che la ragazza era stata allevata nel tempio. Si impone a Maria una specie di ordalia, detta “della gelosia”, descritta nel libro biblico dei Numeri (capitolo 5), comprendente l’assunzione di una pozione che avrebbe avvelenato la donna se adultera. Maria, invece, esce sana e salva da una tale verifica rituale.
Dopo questa lunga divagazione passiamo ai due altri simboli. L’uno è secondario ma significativo. Sullo sfondo del tondo del Ghirlandaio, nel paesaggio appare Giovanni Battista orante: si prefigura, così, già l’esordio del futuro ministero pubblico di Gesù, inaugurato proprio dal Precursore. Ma è l’altro segno a essere decisivo. La mangiatoia/culla alla quale sono accostati i tradizionali (e apocrifi) bue e asino, è trasformata in un mirabile sarcofago marmoreo aperto, ornato con bassorilievi. Si vuole in tal modo anticipare la meta ultima della vita di quel Bambino, la sua morte e risurrezione, simbolicamente rappresentate da quella tomba vuota e spalancata verso la gloria celeste a cui accede il Risorto. Un’iconografia cara anche alle Chiese d’Oriente: l’immagine della culla-tomba appare nelle icone della Scuola di Novgorod a partire dal XV secolo.
Non per nulla i racconti evangelici dell’infanzia di Cristo sono attraversati non solo dal sangue dei martiri innocenti, dalla persecuzione del neonato Gesù da parte di Erode, costretto a divenire profugo accompagnato dai suoi genitori in Egitto, ma anche dall’adorazione dei pastori e dei Magi che in lui vedono la gloriosa presenza divina. Da questo, ma soprattutto da un’analisi accurata dei “Vangeli dell’infanzia” canonici, si intuisce che si tratta di pagine in cui la rada trama storica è intessuta con una fitta serie di fili teologici che vanno ben oltre la tenerezza di una nascita.
In questa luce, nella sua Lettera 342 santa Caterina da Siena si rivolgeva così a Maria, còlta nel momento della sua maternità: «O beata e dolce Maria, tu ci hai donato il fiore del dolce Gesù. E quando produsse il frutto questo dolce fiore? Quando fu innestato sul legno della santissima croce, perché fu allora che ricevemmo la vita perfetta».