Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 24 Domenica calendario

La storia di Gemma Boeri

Si chiama Gemma Boeri. Ma per tutti è Gemma, l’ultima grande cuoca delle Langhe.Non è alta, non è grassa, non è dura. Ha un sorriso lieve e lo sguardo di terra rivolto al mare. Lontano c’è il vento della costa ligure, vicino le colline. E in mezzo Roddino, un cumulo di strade silenziose in mezzo a questo inverno che si annuncia enigmatico.Gemma compie 75 anni e lavora da quando ne aveva quindici: a casa, con le bestie, sui campi, come sarta e cameriera: «da mia madre e mia nonna ho appreso i rudimenti della cucina. Mi piaceva. Ma per arrivare dove speravo ho dovuto pazientare. È stata dura».Parla sommessamente, quasi a voler chiedere scusa per dei pensieri che formula con semplicità. Siamo nella sua Osteria. È giorno di chiusura. L’ambiente è confortevole, caldo, ovattato. Una mimesi perfetta della vecchia tradizione. Alle pareti una miriade di foto con alcuni personaggi famosi. C’è perfino un giovanissimo Jannik Sinner che l’abbraccia e un Cannavacciuolo che le ha reso omaggio e la sovrasta dolcemente come un Mangiafuoco redento. Da Gemma occorre prenotare sei mesi prima.Qualche giorno fa, ad esempio, sono stati organizzati tramite un call center gli appuntamenti da gennaio a giugno: «È complicato soddisfare la richiesta. Uno mi ha detto: Gemma, neanche per fare una tac in ospedale occorre così tanto tempo”.Il paragone rende l’idea, ma a cosa devi il successo?«Da trent’anni offro lo stesso menù. Non invento niente. Tutto quello che faccio proviene da queste terre: le Langhe».Non annoia dare sempre le stesse cose?«Vivo la cucina come un rituale. A volte ho provato acambiare e me ne sono pentita. Per un cliente affezionato preparai proprio il giorno di Natale un menù con alcune novità. Lo vidi deluso e gli chiesi cos’era che non andava. E lui disse: io vengo per la tua carne cruda battuta a mano, per i tuoi tajarin,per la tua insalata russa, per i plin e il coniglio in casseruola. Non vengo per sorprendermi. Rifeci la cucina per lui e per le quattordici persone che si era portato. Fu una lezione sul senso della tradizione».Cosa significa per te questa parola?«La tradizione è la custode del tempo a me ha insegnato che per cambiare devi esserci portato. Il nuovo non sempre funziona».Sperimentando si impara.«Ah, per questo ci sono gli chef. Sono maniaci della precisione. Loro sì che sperimentano, innovano, fanno cose disumane. Li ammiro, ma non potrei mai entrare nel loro mondo».Forse dovrebbero entrare loro nel tuo.«Non ho presunzione e niente da difendere. Il mio amico Crippa merita le tre stelle per il ristorante al Duomo di Alba. Enrico è straordinario, un genio degli accostamenti. E proprio lui, che in cucina sembra fare viaggi interspaziali, mi augura di non cambiare mai».È il tuo segreto.«Ti ringrazio, ma vuoi pubblicare quello che ci diciamo?».Vorrei che questa nostra conversazione uscisse la vigilia di Natale.«Per me Natale è solo un giorno di riposo».Non tenevi aperta l’osteria?«Un tempo sì, quando gestivo il Circolo. Ma la gente giustamente il giorno di Natale lo passa in famiglia».E tu che fai?«Se il tempo è brutto sto in casa e dormo. Se è bello vado al mare. Mi piace il mare d’inverno. Ci vado anche nei giorni in cui il locale è chiuso. Parto in direzione Savona e raggiungo la spiaggia. Mi piace il rumoredelle onde, mi piace la solitudine. A volte resto lì per quattro o cinque ore. Mi porto da leggere e sono i soli momenti in cui riesco a tenere un libro tra le mani. Poi raggiungo un’amica che mi sfama».Dimentichi il tuo lavoro?«No, non potrei riuscirci. C’è qualcosa di bello in ciò che faccio che accompagna i miei pensieri. Fin da bambina mi sentivo destinata a questo compito».Com’eri da piccola?«L’infanzia è stata dura. Sono nata qui, a Roddino, dietro una collina non distante dall’Osteria. I miei erano contadini, con poca terra e nessun soldo.Molta miseria per cinque bocche da sfamare: i miei genitori, mia sorella, mio fratello e io. La primogenita. Ricordo le mie scarpe con i buchi riempiti con il cartone. Finii la quinta elementare e mia madre disse: ora impari il mestiere da sarta e vai a lavorare. Pensavo alle amiche di scuola. Invidiavo la loro condizione. Appresi il mestiere di taglio e cucito, ma faticavo anche in campagna e il sabato e la domenica facevo la cameriera. Quando sei disperato lavori e non pensi ad altro».Oggi le Langhe sono tra le terre più generose e ricche.«Un tempo erano le terre della malora. Se aggiungi l’imperizia e la sfortuna allora capisci la paura del baratro. Mio nonno morì lasciando un mare di debiti a mio padre che aveva 17 anni. Un cugino diede fuoco alla propria casa per riscuotere l’assicurazione. L’abitazione era attaccata a quella di mio padre. E furono altri debiti. Sono vissuta nei debiti. Ma anche nelle cose belle che i miei mi hanno insegnato. Non è vero che se hai fame e sei disperato non puoi avere un gesto gentile, un’attenzione per chi sta peggio di te».Ho letto che tuo padre è stato un partigiano.«A scuola mi chiamavano la figlia del comunista.Ma io sono socialista. Lo sono di cuore, non di testa. Chiedevi di mio padre. Era Francesco, ma per tutti Cichin Boeri. Conosceva ogni zolla della sua vigna di dolcetto. È il vino che io servo. Prendere o lasciare. Cichin aveva una bella voce e amava cantare, è da lui che ho imparato ad amare gli altri.Nella sua cantina ha nascosto i giovani partigiani fuggiaschi o feriti e mi parlava non di quello che aveva fatto in silenzio, mi parlava della vita che va rispettata, della coerenza e che regalarsi un domani migliore è la cosa più bella da immaginare. Morì due anni prima che aprissi il circolo».Come sei arrivata ad avere un posto tuo?«A un certo punto mi sono sposata. Lui meccanico tornitore. Ci trasferimmo a Torino. Lavorava all’alesatrice, sai quelle macchine che fanno i buchi. È durata un po’. Ma non ce la facevo a stare nella città e poi mio figlio piccolo allora soffriva di allergie. Tornai a Roddino».E tuo marito?«Venimmo assieme. Ma il posto non era adatto per il suo lavoro. Di comune accordo decidemmo di separarci e poco dopo mi arrivò l’offerta di gestire un circolo. Ho pensato: beh, proviamo, so cucinare e so stare tra la gente. Il luogo era un garage. Non il massimo. Ma per me fu la svolta. Ho tenuto il circolo per 19 anni, dall’86 al 2005.All’inizio venivano solo i vecchi con il cappello nero in testa e il fazzoletto al collo. Ma poi hanno iniziato a frequentarlo i giovani. Mi piaceva cucinare per loro. Anche tardi. Anche alle due di notte».Poi sei arrivata qui.«Mi hanno offerto questa casa che in realtà era un fienile. Decisamente un posto migliore, ma tutto da ricostruire. Ero spaventata dai nuovi debiti. Ma dovevo rischiare. La gente affezionata mi diceva: Gemma non cambiare, resta qua, se cambi ti guasti.E io dicevo che l’osteria non erano le quattro mura e i tavoli. L’osteria erano loro, il calore, le parole, gli sguardi, l’abitudine. E ovviamente il cibo».Cos’è il riconoscimento?«Credo sia qualcosa di meglio del successo. Non avrei mai immaginato che accadesse proprio a me».Riesci a spiegare la differenza?«Il successo è la parte esteriore del riconoscimento».Il lato effimero.«Più è esteso il successo e più mi appare fragile il riconoscimento. Mio nonno diceva che la vita è una scala. Sali e poi sali ancora, fino ad arrivare in cima. A quel punto cominci a scendere. La gente miriconosce per quello che faccio, non per quello che dico. La mia cucina è fatica. Ho un gruppo di signore, di differente età, senza il quale non riuscirei a tenere in piedi l’Osteria. A queste amiche posso solo dire grazie».A proposito di scale: pensi mai alla discesa?«Ho 75 anni, ho avuto un cancro, e mi sono sobbarcata cure di chemio che mi hanno spossata. I medici mi hanno riempito di farmaci. Farmaci per curarmi, farmaci per combattere gli effetti collaterali di altri farmaci. Ho odiato l’ospedale. A un certo punto ho detto basta. Prendo l’essenziale, il resto lo farà il mio corpo. Quando ho scoperto la malattia mi sono chiusa in casa e ho pianto per una settimana».E poi?«Ho reagito, certo. Ho pensato ai miei due figli, alle mie due nuore. Mi ha colpito quella dell’Azerbaijan. Mi ha detto: Gemma, insegnami a fare la pasta, a tirarla. Ti aiuto. E si è messa di impegno a fare itajarin. Funziona così il mondo: le cose te devi guadagnare. Conta il merito e conta il diritto».Quale diritto?«Quello di avere tutti una buona vita. Ne parlavospesso con Silvana Levi, la compagna di Bruno Ceretto. L’ho conosciuta prima che conoscessi lui. Una grande amica. Una socialista come me. Oggi non c’è più, mi restano le sue parole, la sua determinazione, il suo senso di giustizia».Dove applicheresti questa giustizia?«I politici si riempiono di paroloni, di promesse sballate. Basterebbe guardare questa terra che è la mia terra per capire che va difesa se vogliamo offrire un futuro ai nostri nipoti. Di solito non prestiamo attenzione ai battiti del nostro cuore. Li ascoltiamo solo a Natale, ma dovremmo farlo tutto l’anno».Che cosa proponi?«Non lo so, o meglio non voglio parlare per il gusto di lamentarmi. E soprattutto non è perché sei nato da queste parti che devi solo pensare alla maniera di arricchirti. Vedo che interi boschi sono stati sfrattati da queste colline per piantare nuove vigne. Ma non puoi imprigionare la bellezza o peggio cancellarla solo perché devi fare spazio al vino».Ma è una terra del vino o no?«Certo che lo è, mio padre faceva vino e andava con il raschietto nelle cantine altrui a togliere il tartaro dalle botti. E ci stava perfino rimettendo la pelle. Ma la terra c’è stata data per tante altre cose. E allora dico cos’è questa speculazione? Ma non voglio parlare di politica. Chiedimi piuttosto quante maniere conosco per cucinare il coniglio o fare il brasato».Ti offenderesti se ti chiamassero chef?«Sono Gemma, figlia di quella tradizione che ti dicevo. Ti racconto questa storia. Un giorno si presentò un signore in osteria. Veniva ogni tanto a mangiare. Ma quella volta volle parlarmi. Si chiamava Bruno. Estrasse dall’interno della giacca dei fogli con un cordino. Lo slegò. Erano delle ricette scritte a mano da sua madre, morta da poco.Raccontò che quei fogli erano l’eredità più bella che avesse ricevuto e che volentieri li passava a me.Disse portali con te nella nuova osteria che stai aprendo. Non erano molto diverse dalle mie ricette.Da almeno due secoli quei fogli raccontavano un pezzo della mia e della nostra storia. E se mi chiedo che ci faccio io qui, so la risposta, so di essere parte di questa terra, della mia terra».