il Giornale, 24 dicembre 2023
Intervista a Gianmarco Tamberi
nostro inviato a Formia
Ci sono sogni a metà strada fra la nostra vita e l’isola che non c’è. Sono impossibili, sono attraenti quando s’avvicinano, sono feroci quando ti spingono via e calpestano e prendono tutto.
«Io mi sono ripreso tutto».
Lo dice con pudore Gianmarco Gimbo Tamberi. «Sono riuscito a realizzare tutti i miei sogni dopo che il destino aveva deciso la fine di tutti i miei sogni».
L’infortunio, il rischio di non tornare, non doveva essere questa la prima domanda.
«Però spesso si dice Gimbo ha vinto questo e quello ma io vorrei che si parlasse soprattutto dell’infortunio alla vigilia di Rio 2016, di quel che ho imparato. È il punto cardine della mia storia personale. Perché rialzarsi quando si cade e perde tutto vale molto più di tutto il resto».
Pare una ferita ancora aperta.
«No, ma andare a prendere quell’oro ed essere stato io l’unico a crederci veramente è adesso l’insegnamento più importante».
I famigliari non ci credevano?
«È così. Non gliene faccio una colpa, è stata però la cosa più difficile: vedere gli occhi di una mamma, di una moglie, gli occhi delle persone a me più vicine, mentre ti guardano con tenerezza perché sanno che quello che stai inseguendo è impossibile. Quegli occhi dicevano ci credi tu, ma non ti vogliamo dire che non ce la potrai fare. Questa cosa mi distruggeva perché sentivo di poter sorprendere ancora».
Sorprendere come medicina...
«È stata la mia salvezza voler andare a prendermi l’oro olimpico dopo un infortunio che mette fine alla carriera. Ho trasformato l’infortunio in opportunità per sorprendere».
Non gliene fai una colpa ma avresti voluto che ci credessero.
«Non lo so. L’unica certezza che ho è che questa storia è talmente bella che non cambierei neppure una virgola. Ha insegnato a me e credo possa insegnare ai giovani, a tutti». Per cui maledici quel giorno ma non cambieresti nulla. Arriveresti a ringraziare quel giorno?
«Non mi sentirai mai ringraziare per quell’infortunio. È una cicatrice che non si rimarginerà mai».
Anche se poi...
«È stato mille volte più bello».
Oggi è la vigilia, parliamo di buoni sentimenti: l’oro di Tokyo condiviso in mondovisione con l’amico rivale Mutaz Barshim.
«Venendo da uno sport di squadra come il basket, nell’atletica sento la mancanza degli abbracci fra compagni. Invece in quel momento io e Mutaz abbiamo provato la stessa identica gioia da compagni di squadra anche se in verità eravamo rivali. Credo sia stato un messaggio che ha travalicato i confini dello sport: è arrivato a tutti. Perché dà il senso dell’amicizia. Io dopo 9 anni di lavoro, lui dopo 5, salto dopo salto a giocarcela, pari a 2 e 37, can we have two golds chiede Mutaz all’arbitro, non finisce neppure di rispondere se dite entrambi sì che ci guardiamo e this is history my friend ci diciamo. Eravamo amici, oggi siamo fratelli di sangue, ci sentiamo ogni due giorni. Se penso a un nemico in pedana penso a lui, se penso a un amico nella vita penso a lui. E a Parigi ce le daremo di santa ragione».
Al Mondiale ’23, l’hai battuto.
«È uscito alla terza prova su 2,36, gli ho detto ricordati che comunque vada a finire, chi vincerà sa che il più forte di tutti sei tu.... Perché è vero, Barshim è il più forte saltatore di tutti i tempi...».
Poche settimane fa al Quirinale, davanti al presidente Mattarella, quel richiamo, «siamo esseri umani, non solo esecutori di prestazioni», hai detto.
«Troppi atleti sacrificano tantissimo della loro vita e non riescono poi a raccogliere per colpa della paura di apparire. Temono le critiche, hanno paura di essere se stessi in gara. Grazie a Dio non è mai stato un mio limite. In pedana piango, rido, urlo perché sono me stesso, cerco il risultato, non di piacere al pubblico. E infatti mi prendo anche tante critiche. Ma voglio spiegare ai miei compagni più giovani che non si può cercare di essere normali in mezzo a uno stadio con 80mila persone, ma come si fa? Hai dentro il mondo e devi tirarlo fuori. Se solo cerchi di contenerlo quel mondo ti mangia e ne risente la prestazione».
Ma allora perché gli atleti cercano di contenersi, di fingere?
«Perché hanno paura delle critiche, perché poi vengono attaccati dai media, certo, ma soprattutto sui social. E questa cosa fa male. Gareggiamo per noi, ma anche per il nostro Paese; e allora per quale motivo il nostro Paese deve remarci contro? Ho visto atleti lasciare per anni lo sport, avere difficoltà psicologiche, non riuscire a raccogliere tutto quello che avrebbero potuto. Se il sostegno che diamo alle nazionali a squadre venisse dato anche agli atleti, si sentirebbero più liberi di essere se stessi, di far belle prestazioni e portare il Paese più in alto possibile».
Sei il capitano, insegni ai tuoi compagni.
«Non insegno, incoraggio. Loro insegnano a me, io apprendo dai veterani come dai giovani, da Mattia Furlani il più piccolo, dalla voglia che ha, dall’entusiasmo. Un grande imprenditore, Nerio Alessandri, mi ha detto: Puoi imparare da qualsiasi cosa...».
Sui social hai mostrato per anni gioia, dolore, debolezze...
«A me è capitato di piangere di notte per gli attacchi che ricevevo, ricordo alcuni mesi del 2016, mi avevano umanamente distrutto».
Cosa fai in questi casi?
«Ho imparato a razionalizzare, a portare quella rabbia in allenamento o in gara, penso che qualsiasi cosa possa essere benzina».
L’odio social fa male ai campioni, ai personaggi, figurati alla gente comune.
«Credo che il 90% dell’odio non ci sarebbe se non ci fossero schermi e display che proteggono chi scrive. Bisognerà introdurre dei limiti, perché si stanno provocando danni. I social hanno tanto di positivo ma portano anche tanto di negativo. La gente mostra solo la parte più bella di sé: sorrisi, feste, yacht, ricchezza, viaggi, champagne. E chi guarda vede quello. Ma è realtà quella tutta luccicante? Facciamoci caso: nel momento del dolore nessuno o pochissimi pubblicano. Quando hai un problema familiare guardi il display, ma che cazzo è questa roba ti domandi, e lasci perdere, scompari. Così i follower vedono solo gente che sta bene, mai in difficoltà, e i giovani, che pensano alle loro vite piene di alti e bassi, si scompensano. Non demonizzo i social ma manca un tassello».
Il tassello spetta alla famiglia?
«No, è la piattaforma che deve intervenire, inserendo dei limiti».
Chiara, tua moglie. Un amore nato da ragazzi.
«Non penso che ci potesse essere altro nella mia vita che mi riempisse allo stesso modo. Siamo stati fortunati a trovarci. Sono 14 anni. Ci siamo conosciuti quando io non ero nessuno, e da lì siamo cresciuti assieme. Vedo in lei la sincerità di chi mi ama per chi ero e sono. Mi ha dato amore incondizionato in tutti i percorsi che ho affrontato».
L’amore prima di tutto.
«Sì, però l’amore non va inteso solo come sentimento, relazione, rapporto di coppia. L’amore è un insieme di sensazioni e, soprattutto, l’amore si costruisce ogni giorno grazie alle persone che abbiamo intorno: sono loro il perno di tutto. L’amore di una donna che ti ama davvero, l’amore di un amico che vuole vederti raggiungere tutti i tuoi sogni in maniera incondizionata».
L’educazione in famiglia aiuta a proteggersi dal successo?
«Non so, sulla famiglia non riesco a dare una risposta. Non è stata molto unita, i miei hanno divorziato, il rapporto con mio padre non è mai stato un bel rapporto, tutt’altro. Non ho vissuto in una famiglia ideale, non stavo bene a casa, avevo 17 anni e ho praticamente vissuto in casa di Chiara, mi hanno dato molto i suoi genitori, Piergiorgio e Francesca, innamorati a 55 anni come lo siamo io e la loro figlia. Mia mamma mi ha dato tanto amore, papà non è che non mi abbia dato amore, me l’ha dato in modo diverso».
Il padre allenatore. Dopo l’oro olimpico hai cambiato. E hai vinto l’oro anche ai mondiali. Sinner ha un nuovo coach ed è migliorato.
«La mia decisione è stata dettata da due motivi particolari. Il primo: era un rapporto padre e figlio completamente logorato; il secondo: un rapporto personale che non era più un rapporto normale, tutt’altro. Dal 2017 al 2022 è peggiorato. Per colpa di entrambi probabilmente. Era diventato un rapporto veramente tosto, pesante. Anche perché un conto è aver una brutta intesa con un collega di lavoro, e già è di per sé pesante se ci convivi ogni giorno sui campi d’allenamento; un conto è se questo collega di lavoro è tuo padre. Eravamo entrambi arrivati a non poterne più. E poi negli ultimi anni avevamo visioni un po’ diverse. Lo ritengo a tutt’oggi un allenatore straordinario dal punto di vista fisico e tecnico per il salto in alto, uno dei migliori al mondo, mi ha portato a far quello che ho fatto, e mi ha sicuramente insegnato ciò che mi ha permesso l’anno dopo, senza di lui, di vincere il Mondiale. Quello che so lo so grazie a lui. Però arrivato a 30 anni ho realizzato che non ero più un atleta da costruire, ma che andavo ascoltato; ho cercato di farglielo capire, però in mio padre manca la capacità di ascoltare l’atleta. Lui è bravissimo a insegnare, a prendere un talento e formarlo. Ma quando un atleta è formato come ero io e in più aveva subito un bruttissimo infortunio e lottava per tornare, è molto importante riesumare le proprie vecchie sensazioni. Io non arrivavo da 2 e 15 e volevo fare 2 e 39, io arrivano da 2 e 39 e volevo rifarlo. Io volevo ritrovarmi, lui voleva insegnarmi».
Ora tra padre e figlio com’è?
«Il rapporto si è rovinato a tal punto che ad oggi è compromesso e se il tempo lo sistemerà, ancora non posso saperlo. Praticamente non ci parliamo più».
Vuoi che smettiamo?
«No, no, è la verità, perché dovrei nasconderla? Non dicevo prima della finzione nei social, di tutti che mostrano solo cose belle? Sicuramente è uno dei fallimenti della mia vita non essere riuscito a creare un rapporto con mio padre; non me ne faccio una colpa e non la faccio a lui. La faccio al nostro modo di essere incompatibili».
Se tu avessi un figlio che come te da ragazzino si traveste a scuola da vigile urbano e va fuori a dirigere il traffico, o che all’intervallo entra in bagno con i capelli lunghi e torna rapato...
«Non lo so, la tua domanda è: cosa ha sbagliato tuo padre perché tu fossi un ragazzino così...».
Assolutamente no, era riferita solo alle tue guasconate.
«Ma non riesco a scinderla dai miei genitori. Credo sia mancata un’altra cosa: credo che essere genitore non debba mai discostarsi dall’essere papà. Cioè genitore è uno che insegna a vivere e mio padre lo è stato in maniera esemplare. Perché mi ritengo una persona che ha dei valori molto importanti tra cui quello dello sport, del rispetto delle regole, per me l’etica sportiva è sacrosanta e lui mi ha insegnato tutto questo. Però è mancata la parte da papà, quella di spiegarti le cose con amore».
Sei solito dire: «Le scuse mi fanno incazzare».
«Mi sono reso conto che quando decidevo di trovare delle scuse alla fine non imparavo nulla. Questo me l’ha insegnato lo sport, non è che sono un genio. Devi avere la forza di andare nel profondo e trovare la risposta che magari fa male, che dice hai sbagliato tu caro mio».
I giovani calciatori che scommettono per noia.
«Sicuramente è colpa loro ma non così tanto come è sembrato. A questi ragazzi così giovani viene dato in mano il mondo e pensano di poter fare tutto. Non capiscono più niente, a 18 o 20 anni hanno milioni e milioni in banca e sono idolatrati anche quando sono ancora delle promesse. Così si perdono. La scala verso il successo, anche economico, dovrebbe essere più graduale perché così il ragazzo rischia di perdersi».
La scaramanzia è una?
«Manifestazione di debolezza».
Però lo eri scaramantico: mezza barba, capelli colorati...
«Sì, ho smesso di seguire certi riti sistematicamente nel 2021 perché la scaramanzia è un modo di nascondere le nostre paure».
A Tokyo senza barba. Nel giorno più importante della tua vita niente scaramanzia.
«Lo feci anche per un altro motivo: non volevo in nessun modo, se fossi riuscito a vincere, che mi ricordassero per la metà barba. Volevo che tutti pensassero solo al percorso di sofferenza che aveva fatto in quei 5 anni per tornare ai miei livelli. E comunque ricorda una cosa: mezza barba, capelli platino, azzurri hanno anche un altro scopo. Sono il mio modo di mettermi spalle al muro. Per dare il massimo devo sentire di non avere vie d’uscita. Colorai i capelli per la prima volta nel 2013 dopo 3 gare pessime. Pensai: mi faccio i capelli verdi così se fallisco ancora faccio anche una gran figura di merda conciato così... per cui devo assolutamente andar bene. Saltai 2 e 30. Ovviamente non va sempre bene».
Dopo lo sport?
«Non so ancora, troppo concentrato sui prossimi obiettivi e il mio presente ora è Parigi 2024».
Ma se hai detto meglio il mondiale e 2 e 40 di un altro oro olimpico.
«L’ho detto prima dei mondiali. Adesso dico meglio il bis mai riuscito ai Giochi... magari con il record olimpico... che è 2,40».
Portabandiera, la telenovela è iniziata: l’oro della sofferenza a Tokyo, l’oro condiviso, l’oro ai Mondiali, il richiamo all’umanità davanti a Mattarella, ma chi c’è meglio di te?
«Mi rendo conto di essere uno dei papabili, ma allo stesso tempo c’è un atleta che conosci benissimo, Gregorio Paltrinieri, che merita altrettanto. Greg è un atleta straordinario, se dovesse essere lui non sarebbe sbagliato, non lo vedrei come un torto enorme che mi fa Giovanni (Malagò, ndr) o chi per lui».
E condividerla con Greg?
«Sarebbe splendido, un altro amico, un ragazzo che stimo da morire per la sua dedizione allo sport e per il modo in cui lo vive. Bellissimo».