La Stampa, 24 dicembre 2023
Dickens l’irresistibile
Una nave per casa. Tra discariche di imbarcazioni, sartie, relitti, in una grande piana deserta tra mare e fiume, David ancora bambino scorge «una chiatta nera, o un qualche altro tipo di barca antidiluviana, a secco sulla terraferma, con un fumaiolo di ferro che ne sporgeva a mo’ di comignolo e che fumava in modo molto accogliente; ma null’altro del genere abitazione era visibile ai miei occhi. “È forse quella?” domandai. Se fosse stato il palazzo di Aladino, uovo di Roc e tutto, non avrei potuto, credo, essere più affascinato dalla romantica idea di viverci dentro… La sua meravigliosa attrattiva era che si trattava di una nave vera, che indubbiamente era stata sull’acqua centinaia di volte e che non era mai stata destinata ad essere usata per abitazione sulla terraferma. Questo era per me il suo incanto. Se mai fosse stata destinata ad essere abitata, l’avrei giudicata piccola, o scomoda, o solitaria; ma non essendo mai stata designata a tal uso, diventava la dimora perfetta».
È una scena da fiaba, una delle tante pause di luce, umorismo e affetto – C. S. Lewis diceva che nessuno eccelle nel ritrarre così lo storge greco – che costellano le peripezie luttuose del Copperfield. Ma si tratta anche di una radicale immagine metaletteraria, il nocciolo dell’esperienza provata da tante generazioni di lettori di Dickens stesso. La sua scrittura è quella barca-abitazione, odorosa di legno e colori accesi a contrasto col grigio esterno dell’inverno. Il conforto d’uno spazio sicuro e al tempo stesso l’esposizione avventurosa al mondo in virtù del suo stesso impiego ribaltato. La casa immobile conserva l’eco dell’acque traversate, continua immobile a muoversi nell’esercizio dell’immaginazione. Lo spazio si restringe e il tempo si dilata. La situazione ideale sarebbe forse la convalescenza di qualche lieve malattia, un divano, una poltrona, magari accanto alla finestra, immersi ne Il nostro comune amico o Grandi speranze, tra risate, farse buffonesche, gli orrori dei vicoli di assassini e usurai che strisciano lungo i muri come serpi o scarafaggi, persino nei punti più sonnolenti – e ce ne sono ed è persino questo il bello – comunque portati avanti.
Oggi neppure questo è senza assedio, la frammentazione della lettura nell’era della comunicazione di massa sottrae facilmente a un simile sprofondamento, perderlo vuol dire negarsi la possibilità di vivere tutta un’altra vita, riappropriarsi di quella quotidiana e comune per mezzo del linguaggio artistico quando ancora sulla nostra vicenda non è stato messo il punto finale dell’ultima pagina. Eppure la barca-casa continua ad essere visitata.
Lo sguardo di Dickens, le sue storie restano uno degli ambienti mentali nei quali ci muoviamo, una cisterna alla quale continuiamo ad attingere. Barbara Kingsolver ha vinto il Pulitzer con Demon Copperhead sulla strage di oppiodi in America e i bambini abbandonati, evocando lo spirito stesso di Dickens seduta alla sua scrivania. Zadie Smith con L’impostore si confronta col romanzo ottocentesco nel tentativo di una conquistata polifonia di voci estromesse dalla storia vulgata e superare di petto il confronto col Grande Vittoriano per mezzo d’un immaginario scrittore afflitto dal complesso d’inferiorità nei suoi confronti.
Al di là di questi richiami espliciti e vistosi, rintracciare la presenza di Dickens oggi resta impossibile. Egli è, semplicemente, dappertutto. Lo si è detto molte volte, la serialità televisiva, con le sue unità singole che ogni volta devono prendere alla gola l’attenzione e al tempo stesso rintuzzare l’attesa per ciò che seguirà, deriva dai suoi capitoli a puntate che venivano letteralmente abbordati quando giungevano in America. Quel che conta più ancora è la creazione d’un intero pantheon di archetipi come non si vedeva dai tempi di Shakespeare. Grandi artisti come Cervantes o Stevenson ce ne hanno elargiti uno, due. Victor Hugo è ancora amato in tutto il mondo coi musical di Notre-Dame e I Miserabili. Gli indimenticati di Dickens sono decine, gli adattamenti al cinema non si contano. Pickwick, Scrooge, Miss Havisham, Oliver… chiuse le pagine li vediamo dappertutto. Una cornucopia di buoni e cattivi parimenti ricordati con affetto, l’aggettivo stesso dickensiano a disegnare un’intera atmosfera, impalpabile e variegata.
La sua capacità di creare storie condivise a partire dal suo vissuto personale resta un antidoto alla deriva patologica dell’autofiction con la sua tendenza naturale all’autocompiacimento, e quindi in fondo all’insincerità. Il suo attestarsi costante nella zona incerta tra visibile e invisibile, tra il romanzo schiettamente sociale e il più antico romance fiabesco, ha tenuto a battesimo tanto del romanzo moderno, la sua irriducibilità ai canoni del realismo e del fantastico, perché ogni artista compiuto in fondo è un visionario, strappa ai cliché di metafore che non ci connettono più alla spigolosità e ai rovesci della esistenza, riconsegna alla Luce che precede le single luci, la pura gioia di essere al mondo.
Tutto questo in virtù del suo linguaggio, una prosa sgroppante a ogni svolta, gli incipit memorabili che seguono un passante in strada o immaginano un dinosauro spiaggiato nel fango e la nebbia di Londra. Il segreto è leggerlo a voce alta, anche in traduzione (penso a Marco Rossari) giacché si scrive e legge con le orecchie. Tale postura sulla soglia di ciò che parrebbe inconciliabile ha permesso e permette di cavare da lui quel che più ci aggrada, e anche per questo Dickens è rimasto un autore tanto per lettori che per scrittori.
Kafka lo idolatrava. Così Dostoevskij. Tolstoj teneva un suo ritratto nello studio. Wilde perfidamente suggeriva di aggiungere un tumore al cervello delle vicissitudini delle sue melense pupattole. Walter Benjamin lo collega a Baudelaire nel tentativo di escogitare una nuova forma al compito dell’eroe antico di dare forma alla modernità. «Quando Dickens descrive qualcosa, la vedi per il resto della vita» sentenzia George Orwell. Tolkien parte dove lui si arresta, spezza l’idillio borghese ove spesso sfumano i suoi racconti. La sua ombra si allunga su Toni Morrison, sul Murakami di Norvegian Wood, ovviamente sugli orfani di J. K. Rowling e i romanzi di formazione di Donna Tart. I tributi migliori son spesso da ricercare però in chi ha saputo tradirlo, sporcarlo, strapparlo al conforto feticistico della mera cornice ambientale. Uno degli esempi più clamorosi è Chav di D. Hunter, autentico pugno nello stomaco sull’infanzia di un piccolo marchettaro, tra abusi domestici e l’anonima violenza generalizzata della società capitalistica: «Se non ci riesci, saranno le istituzioni statali a gestire te. Punzecchieranno la tua psiche, creando nuovi traumi e facendo sanguinare vecchie ferite».
Non saranno semplicemente nebbia e ponche, moli e vicoli a riconsegnarcelo, per quanto benvenuti. Al di là persino delle sue prediche moraleggianti, il trionfo incontestato di Dickens resta quello d’una bontà credibile, perché insolità, ribaltata. Più ancora che i suoi volenterosi filantropi, sono i Micawber sempre indebitati e le ossessive zitelle Trotwood a conquistarci, e questi dobbiamo ancora una volta cercare, fuori e dentro di noi, giacché «il miglior compagno della vita è il fastidio, così forte, meraviglioso, divertente e immortale» come scrisse quello che resta forse il suo miglior lettore di sempre, il G. K. Chesterton cui è bene cedere la parola nel mettere a fuoco l’autentico cuore dell’eredità di Dickens, che per tramite suo possiamo ancora scorgere pure nello zio appisolato sul sofà dopo l’ennesima barzelletta a Natale, insopportabile, irrinunciabile: «Sono proprio le persone più fastidiose nelle piccole cose a rivelarsi le più piacevoli nei lunghi tratti d’esperienza nella vita. L’uomo che perde la pazienza ordinando una fetta di carne, o fissando un appuntamento, sarà probabilmente la persona con cui vale davvero giungere al proprio funerale. Lasciate che le persone meritevoli, competenti e metodiche, si affaccendino in quelle questioni dove li porta la loro ambizione e la loro innata corruzione. Ma tenetevi stretti al cuore e fatevi consigliare dalle persone folli. Lasciate che le persone intelligenti pensino di controllarvi, lasciate credere agli irreprensibili di consigliarvi, ma lasciatevi influenzare solo dai matti. Lasciate entrare nella vostra vita solo le persone ridicole di cui vedete e capite gli errori, lasciate che vi accostino e vi accompagnino nella marcia solitaria verso l’ultima impossibilità». —