La Stampa, 24 dicembre 2023
La fabbrica
Basta seguire i profumi: cacao, nocciole, pane, cialde. E poi la menta, l’arancia, la fragola delle caramelle. Dicono che nei giorni di bassa pressione, o quando tira vento, si sentano per tutta Alba.
La fabbrica della Ferrero, grande come 50 campi da calcio, si prende circa un decimo della città: 4.500 dipendenti, in quasi ogni famiglia della zona c’è qualcuno che ci lavora, direttamente o indirettamente. Cinque stabilimenti in uno, perché ogni tipo di lavorazione va separata: cambiano le materie prime, i macchinari, le tecniche, le etichettature, i mercati di destinazione. E una delle regole di questo mondo è che niente va contaminato. L’altra regola, che domina su tutto, è che qui non si delega nulla. In una sorta di autarchia contemporanea la Ferrero è un’azienda che prova a bastare a se stessa: lavora solo con materie prime, le trasforma, le combina come fosse un’immensa pasticceria. Preparati e semilavorati sono banditi: si crea tutto da zero. Non solo i dolci, ma anche i macchinari che servono per produrli. E si studia, si prova, si inventa: tutto è pensato e testato ripetutamente prima di essere realizzato.
Forse il segreto di un’azienda che solo in Italia ha circa 7 mila dipendenti e al 31 agosto scorso registrava vendite sul mercato nazionale in crescita del 6,7%, un fatturato 1,756 miliardi (oltre 100 milioni in più dell’anno precedente) e un utile di 53,2 milioni (erano 32,6 al 31 agosto 2022) è racchiuso qui: Michele Ferrero – il patron le cui foto (insieme con quelle del figlio Pietro, scomparso nel 2011 a 47 anni) sono appese ovunque, al pari delle statuette della madonna di Lourdes – lo chiamava «sacco conosciuto». Sapere qual è la tua materia prima, da dove arriva, come è stata trasportata, come viene stoccata e conservata; e poi decidere come combinarla e lavorarla, costruire i macchinari più adatti e ripartire quasi ogni giorno da zero. Provare e riprovare, studiare e perfezionare. Ieri come oggi, sotto la guida di Giovanni Ferrero.
Le lavorazioni da zero
Davanti allo stabilimento c’è un grande piazzale: fermano 11 linee di autobus, organizzate dall’azienda per collegare la fabbrica ai comuni della zona. Già per il signor Michele era essenziale che chi scendeva ad Alba per lavorare non spopolasse le colline circostanti. All’ingresso c’è un monitor che annota i dati sugli infortuni. Una scelta precisa: mostrarli serve per creare consapevolezza, ricorda a tutti che l’obiettivo deve essere zero. Ci sono cinque stabilimenti: ciascuno dedicato a una linea di prodotto, e ciascuno – al suo interno – organizzato per singole lavorazioni e mercati di destinazione. Da qui escono 650 mila tonnellate l’anno e 55 prodotti che milioni di italiani conoscono da generazioni ma anche i semilavorati destinati agli altri poli produttivi della Ferrero sparsi in Italia e nel mondo. Ma soprattutto qui si inventa, si crea, si sperimenta, si cercano le tendenze del futuro.
Ogni lavorazione parte dalla materia prima: che siano le fave di cacao o le nocciole crude e ancora da sgusciare, che sia la pesca per il te o la farina per le basi dei biscotti e delle merendine. Ci sono i silos per immagazzinare il cioccolato, o per fare la pastella dei waffle, i forni per cuocere. E poi chilometri di nastri. Da Alba, ad esempio, ogni giorno escono 25 milioni di praline. Per realizzarne una – da quando si crea la pastella del waffle a quando il prodotto esce incartato e confezionato – si impiegano non più di tre-quattro minuti su una linea lunga mezzo chilometro.
Si parte dalla pastella della cialda, la si cuoce nei forni, la si pressa, la si adagia sugli stampi, si aggiunge una colata di cioccolato, una nocciola nella cavità, quindi un braccio sovrappone due waffle e li pressa insieme; una nuova colata di cioccolato, una cascata di granella, un’altra colata di cioccolato ed è tutto pronto per essere confezionato. Due veli di alluminio, la carta sotto e infine il bollino. Ogni macchina ne incarta 1.200 al minuto. Fra ripieno e granella in ciascuna pralina ci sono 3,7 nocciole: non un grammo in più, non uno in meno. Solo per questo prodotto se ne usano 80 milioni al giorno.
Dieci anni per produrre
Uomo e macchina lavorano in sinergia: tutti i passaggi della lavorazione sono sorvegliati da addetti pronti a scartare ciò che è difettoso. Ogni lavorazione passa diversi controlli di qualità compresi i metal detector, casomai qualche frammento metallico finisse in un alimento. Di più: di ogni lotto di produzione viene conservato un campione, così che sia possibile in qualunque momento risalirvi ed effettuare ulteriori verifiche.
Quasi tutte le lavorazioni riproducono questo schema: nastri, celle di raffreddamento, colate di cioccolato o latte, pannelli vibranti per assestare i componenti e rulli che recuperano l’eccesso perché sia riutilizzato. In realtà ciascuna è il frutto di uno studio meticoloso. Da quando un prodotto viene pensato a quando finisce sugli scaffali possono passare anche dieci anni. In un tempo di consumismo rutilante e gusti che devono cambiare per poter vendere sempre nuovi prodotti, quella della Ferrero è una scommessa su abitudini consolidate. L’anno prossimo Nutella compirà sessant’anni, altri prodotti sono sul mercato da mezzo secolo. Alla base c’è l’idea che ciascuno di loro debba essere così complesso (per composizione, procedura e tecnica) da essere sostanzialmente inimitabile. E dunque durare nel tempo.
Tra pasticceri e agronomi
Ma per durare c’è assoluto bisogno di quel che accade a monte della fabbrica vera e propria, là dove si pensa e si crea: da una parte il gusto e la forma, dall’altra la tecnica. In Ferrero c’è una divisione che si chiama Direzione tecnica di categoria. È fatta di 200 tra pasticceri, panificatori, agronomi, chimici: ogni giorno replicano in piccolo quel che poi verrà realizzato su vasta scala in tutti gli stabilimenti del gruppo. Qui si doma la natura: si fa ricerca e sviluppo sulle materie prime ma anche sui prodotti finiti, si eseguono test, si studia come migliorare ciò che è già sul mercato e soprattutto come mantenerlo sempre uguale a se stesso. Si fa il cacao, la granella e la manteca di nocciole. Si fa la Nutella, combinandone i sette elementi che la compongono. Si fanno i biscotti, le merendine, i grissini, le cialde per i waffle. Ci sono impastatrici, rulli, forni, camere di lievitazione.
Ogni cosa prima di diventare prassi in fabbrica viene studiata e validata qui, dove si creano anche le novità: marketing e creativi pensano un nuovo prodotto ma i laboratori lo creano e lo affinano finché – dopo anni – non si ritiene sia pronto per la fabbrica.
Ogni laboratorio ha la sua specialità. Chi lavora la materia prima deve gestire un’infinità di variabili: ad esempio una nocciola o una fava di cacao sono diverse a seconda della provenienza, ma anche se della stessa qualità e della stessa zona di stagione in stagione possono cambiare in base a clima, caldo, piovosità. E dunque bisognerà studiare come tostarle, spremerle e poi combinarle con le altre materie perché il prodotto che ne esce sia sempre lo stesso, quello che milioni di persone sono abituate a riconoscere. Una nuova nocciola viene studiata anche per cinque o sei anni prima di essere sdoganata. Anche attraverso i laboratori di pasticceria Ferrero persegue il suo mantra: l’unicità. Come puoi replicare o avvicinare un prodotto che ogni giorno viene messo alla prova e “aggiustato” per essere sempre se stesso?
Macchinari fai da te
Il terzo pilastro è la tecnologia. Una produzione che vuole essere inimitabile non può camminare su macchinari di uso comune. Per passare dalla pasticceria alla produzione industriale ci vogliono le quasi 400 persone ospitate al Technical Center, una palazzina per lo più popolata di ingegneri. Soluzioni interne per esigenze interne. Negli stabilimenti Ferrero i macchinari sono creati da hoc nell’officina del Technical Center o realizzati acquistando sul mercato componenti che poi vengono assemblati ad Alba, lontano da occhi indiscreti. Qui sono nati gli scanner che individuano le cialde difettose evitando che siano inutilmente riempite, o le macchine ad altissima precisione in grado di inserire il cioccolato nella fessura di un biscotto così da riprodurre un occhio o la curva della bocca. Il laboratorio crea, la fabbrica produce, gli ingegneri studiano come passare alla catena di montaggio.
Tutto, o quasi, è autoprodotto: persino le sorprese che finiscono negli ovetti. Se ne occupa un team che lavora in un altro edificio al cui interno una sorta di caveau custodisce tutte le sorprese realizzate dal 1978 a oggi. L’idea originaria era replicare nel quotidiano l’uovo di pasqua compreso ciò che sta al suo interno. Ma serviva tenere conto di una serie di fattori: dimensioni, sicurezza, costi. Così è nato questo reparto dove si disegnano i giocattoli (circa 350 all’anno), si realizzano i prototipi e li si testa soprattutto dal punto di vista della sicurezza prima di dare il via libera a chi, in Cina, li produrrà.
Un’azienda concepita perché nulla sia trascurato non poteva che estendere il suo modello anche ai rapporti con i dipendenti. A ciascuno di loro vengono garantiti servizi piuttosto rari da trovare altrove: welfare, asili nido e scuole materne per i bambini, borse di studio, centri sportivi. Un rapporto che non si esaurisce con la pensione. Quarant’anni fa Michele Ferrero ha dato vita a una fondazione – intitolata a Piera, Pietro e Giovanni Ferrero e oggi presieduta da sua moglie Maria Franca – per mantenere un legame con chi ha lavorato a lungo in azienda. È a pochi metri dalla fabbrica: una casa per continuare a frequentarsi anche dopo la vita lavorativa e mantenere un legame con il mondo Ferrero. Circa 4.500 persone gravitano intorno a questa realtà che offre (quasi sempre gratuitamente) ambulatori, medici specialisti, palestra, teatro, laboratori di disegno e ceramica, caf e assistenza legale, un auditorium, un centro di documentazione su Beppe Fenoglio, attività, spettacoli ed eventi. Il motto è: lavorare, creare, donare. Il lavoro declinato secondo dignità, talento e responsabilità per dar vita a qualcosa di nuovo e non fine a se stesso ma rivolto al benessere della comunità.
Una dichiarazione d’intenti che si può adattare anche a quest’enorme fabbrica adagiata sulla sponda del Tanaro che vive per plasmare sempre qualcosa di difficilmente imitabile.