la Repubblica, 24 dicembre 2023
È Natale anche per chi non crede
L’avvicinarsi del Natale e della fine dell’anno invitano a una riflessione comune credenti e non credenti. Qual è il senso di queste due giornate e quale rapporto le lega? Cosa tiene insieme il giorno che miliardi di persone riconducono alla nascita di Cristo e quello in cui un anno si chiude? E che ci dicono questi due termini – inizio e fine – in una stagione, come quella che viviamo, percorsa da un senso di fine imminente e di sfiducia in un nuovo inizio?
La riedizione di un testo del grande teologo tedesco Romano Guardini, Natale e Capodanno. Pensieri per fare chiarezza (Morcelliana, a cura di Silvano Zucal) solleva tale questione. Non solo per chi è cristiano. Anche chi non lo è si sente interpellato dalle sue parole, dalla loro serietà ed intensità. Anche perché proprio dall’indebolimento delle parole bisogna partire. Sempre più le grandi parole sono attratte in un vortice in cui si mescolano e consumano, perdendo il loro significato originario. Gli stessi cristiani hanno da tempo smarrito il senso del Natale. L’evento che quel giorno evoca ha visto annebbiare i propri contorni, esaurire le proprie ragioni. Rimanda nel caso migliore a qualcosa di sentimentale, nel caso peggiore alla logica mercantile degli acquisti e delle spese.
Certo il richiamo all’intimità familiare, la distribuzione dei doni, il brillare delle luci conservano una loro carica emotiva. Fanno parte della nostra vita e delle relazioni che contano. Ma non qualificano il Natale – che è tale anche per chi non ha famiglia e non può fare e ricevere regali. Il suo significato sta altrove. Esso ricorda un fatto – la nascita in Palestina di un uomo che si è dichiarato Dio. Natale è tante cose – gioia, affetto, calore. Ma al centro vi è l’Incarnazione. Prima che un messaggio, un evento. Cristo non si è presentato come un profeta o un predicatore. Ma come un Dio che si è fatto uomo per salvare tutti gli uomini. Qualcosa di inaudito che ha coinvolto un numero finora sterminato di donne e uomini.
Certo, donne e uomini cristiani. Ma il Natale conserva un significato anche per i non credenti. Esso attesta la forza dell’Inizio. In un mondo che sembra abbandonato alla violenza, qualcosa di nuovo può iniziare. Anche nel buio della disperazione può aprirsi una speranza. Si tratta dell’apertura alla novità, contrapposta alla ripetitività di ciò che è sempre stato. Quella nascita in una capanna, chiunque vi sia nato, non è una favola, una magia, un mito, ma un accadimento storico. Perciò fin dall’inizio i Padri della Chiesa si preoccupano di rompere ogni rapporto tra il Natale e la festa del sole invitto, cui era legato nelle culture del Vicino Oriente. La venuta di Cristo non riguarda la natura, ma la storia. Non è un dato o un processo naturale, ma un evento. Qualcosa che accade una sola volta e non lascia niente come prima.
Al centro del Natale vi è l’Inizio. Non il Principio di tutto – la creazione del mondo – ma la nascita di un uomo simile a quella di tutti gli altri. Eppure diversa, come quella di tutti coloro che sono nati, nascono e nasceranno. L’inizio è l’uomo, dirà Hannah Arendt, allieva di Guardini a Berlino. E all’inizio – in quanto evento unico – si richiamano, in forma diversa, i grandi filosofi del Novecento, da Heidegger a Benjamin. L’inizio non avviene una volta sola, ma infinite volte. La vita umana – e dunque in qualche modo anche la storia – non fa che ricominciare, per quante sono le nascite. Ogni minuto qualcuno viene al mondo e, già con la sua venuta, in qualche modo lo cambia. Ma anche all’interno di una singola vita, la vita non fa che rinnovarsi. Non inizia una sola volta, proseguendo lungo una linea retta. Cambia sempre, talvolta rendendosi irriconoscibile. Ogni giorno, ogni ora, può essere la prima volta.
Ma anche l’ultima. Nella vita umana, alla libertà dell’inizio risponde la necessità della fine. La fine dell’anno ci richiama a questo fatto inemendabile. Come la nostra nascita, anche la morte non dipende da noi. Ci coglie all’improvviso senza che sia possibile evitarla. Anche a questo “termine” ci richiama la fine dell’anno. Ogni anno, ogni giorno, finisce. Come l’inizio si riproduce continuamente, anche la fine è sempre davanti a noi. Tutto finisce, ma non una sola volta. Finiscono le esperienze, gli amori, i rapporti. Ma la fine dell’anno, che ci apprestiamo a celebrare dopo il Natale, ci ricorda qualcos’altro. E cioè che in un momento quella fine coincide con un nuovo inizio. Che un altro anno succede al primo senza interruzione. La fine dell’anno che ci lascia è insieme l’inizio di quello che arriva. Per cogliere questo attimo non bisogna credere necessariamente nella Resurrezione. Ci basta la possibile rinascita che ogni vita può, a un certo punto, sperimentare. Ci è accaduto di provare questa sensazione quando si è allentata la stretta della pandemia. Ci accade quando, nel pieno della guerra, si apre uno spiraglio alla pace. O almeno a una tregua. Nonostante i presagi di catastrofe, non è detto che qualcosa di nuovo non possa arrivare.
Il significato profondo sta nel fatto che per tutti, non soltanto per i cristiani, attesta la forza dell’inizio. E che nel buio della disperazione può sempre aprirsi una speranza
La venuta di Cristo non riguarda la natura ma la storia Non è processo naturale ma un evento. Che non lascia niente come prima
Tutto finisce, ma non una sola volta