Corriere della Sera, 23 dicembre 2023
Disfare Beckett. E capirlo
Quando Samuel Beckett torna in Francia, la guerra è appena finita. Erano stati anni duri anche per lui. Nel ’41 era entrato in una cellula della Resistenza, «Gloria SMH», per la quale aveva tradotto documenti microfilmati; catturati i compagni dai tedeschi, Sam e Suzanne fanno in tempo a rifugiarsi in Valchiusa, dove lui alterna la scrittura di Watt al lavoro nei campi. Nell’agosto del ’45 arriva a Saint Lô, in Normandia, la capitale delle rovine (come intitola un reportage pubblicato solo quarant’anni dopo), dove per mesi lavora come autista d’ambulanza. È lì che incontra un’«umanità in rovina» che deve far «ripensa re la nostra condizione umana».
Lo stesso paesaggio in cenere contempla Clov dalla feritoia di Finale di partita. Alla tragedia del nazionalismo, del totalitarismo e della guerra succede la farsa dello «spopolatoio» massmediatico: tutto rinvia al «residuo» al quale, per dirla con Adorno, s’è ridotta «la Storia» (anche Gadda parlerà del «residuo fecale della storia»). Nel suo primo libro, quello su Proust del ’31, aveva usato una parola italiana, «disfazione», presa – ha mostrato Giancarlo Alfano – dagli scritti di Leonardo: alludendo allo sperpero dell’io profondo in «un’avidità onnicomprensiva». Se il nostro anelito alla vita disfa la nostra essenza più profonda, nostro compito dev’essere disfare quel desiderio vano. È la morale di Leopardi e Schopenhauer, due autori che Beckett conosce bene (e cita nel Proust). Se ne ricorderà l’avatar del liutaio Belacqua, nel Purgatorio dantesco seduto a terra con le ginocchia fra le braccia (postura ripresa dall’Estragon di Aspettando Godot; ma Belacqua si chiamava già il protagonista di Più pene che pane, esordio narrativo del ’34).
Quella di Schopenhauer era stata la sua lettura-chiave durante il viaggio del ’36-37 nella Germania hitleriana. Scrive all’amico Axel Kaun di una «letteratura della non-parola» che nella lingua «scava (…) un buco dopo l’altro finché ciò che vi sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare». C’è questa idea alla base dell’abbandono, doloroso ma necessario, del magistero in progress di Joyce che lo aveva guidato sino a Murphy. E sono del ’37 le prime poesie in francese: con le quali si comincia ad affrancare da quella «lingua orribile» che è l’inglese, ma pure dalle ambagi di una soggettività che aduggiava ancora i suoi primi versi (quelli per Manganelli afflitti da «qualcosa da dire»).
Non è un caso, credo, che del necessario «taglio» operato da Gabriele Frasca (curatore del Meridiano Mondadori di Samuel Beckett, Romanzi, teatro e televisione, che sfiora le duemila pagine.) abbiano fatto le spese anzitutto le poesie (da lui stesso curate per Einaudi nel ’99) insieme alle più frammentarie prove narrative, teatrali e radiofoniche. Fatti salvi Murphy e Watt è il Beckett francese, o meglio post-inglese, quello canonizzato dal suo maggiore esperto, a lui dedito ormai da quarant’anni. Insieme all’io (Not I s’intitola un microdramma del ’72), sostituito da una «parola neutra che si parla da sola» (così Maurice Blanchot definì L’innominabile), la disfazione del Beckett maturo s’indirizza contro la lingua-madre per Frasca non solo portata a perfezione e consunzione da Joyce, ma più alla radice istituto fondativo della «letteratura nazionale»: «atto di Resistenza» che lo accomuna a Gadda e a Nabokov.
La scelta
Nel libro compaiono i lavori narrativi e quasi tutte le pièce teatrali Non le poesie
Non è un caso che proprio nel ’46 Beckett decida una volta per tutte di abbracciare la «stylessness» resagli accessibile dal francese. Quello che Frasca chiama «equilinguista» è colui che di volta in volta scrive in una lingua per passare all’altra.
Il procedimento si fa ancora più complesso a teatro, dove entra in gioco pure il tedesco nel quale Beckett rivede le traduzioni dei suoi testi: la pratica teatrale gli mostra non l’incompiutezza bensì l’interminabilità del processo di scrittura. Scegliere da quale lingua tradurre, allora, non comporta solo conseguenze interpretative, ma si fa cruciale sul piano propriamente filologico (Frasca, che deve così ritradurre anche versioni storiche, ne dà conto nelle note sobrie ma puntuali che fanno, di questa, anche la prima edizione commentata del corpus). Nell’ultima parte del libro c’è il Beckett che scopre il medium televisivo ed eccede, anche in senso materiale, il «sistema-letteratura». Ma tutta l’ultima parte della sua opera si regge in miracoloso equilibrismo sul nulla.
Da giovane, oltre che giocatore di cricket di alto livello, era stato motociclista provetto; e a vent’anni fece un giro della valle della Loira in bicicletta. Di ciclismo si parla in Mercier e Camier, ma già il Belacqua di Più pene che pane opta per un giro in bici in luogo dell’affair che gli prospetta una certa Winnie (omonima di quella che blatererà in Giorni felici…): quello su due ruote è per Beckett un falso movimento da preferire alle seduzioni del mondo. Quando gli venne chiesto chi fosse Godot menzionò un vecchio ciclista (un professionista francese di nome Roger Godeau fu in effetti attivo negli anni Quaranta e Cinquanta; pare che una volta, a un Tour de France, Beckett s’incuriosì perché, passato il gruppo, alcuni spettatori erano rimasti sul ciglio della strada; chiese chi stessero aspettando e loro avevano risposto «Godeau»). Una delle sue ultime, risonanti prose s’intitola Fremiti fermi, e in generale la sua scrittura pare dominata dallo stesso «manierismo» che Gilles Deleuze (nelle lezioni dell’81 Sur la peinture ora pubblicate da Minuit) attribuiva a Francis Bacon: una «deformazione» sottile della figura (una sua disfazione) derivante dall’essere percorsa da un’energia interna che non si traduce mai in un movimento vero e proprio. I suoi personaggi sono come i ciclisti in surplace che nel periodo eroico dei velodromi, per non partire in testa, erano capaci di restare immobili per ore sulle due ruote.
In equilibrio fra morbosa curiosità ed esplicito rifiuto, nei confronti di una lezione così ardua e verticale, è sempre stata a sua volta un po’ tutta la nostra cultura letteraria. Una volta Gianni Celati (il più sincero dei suoi discepoli) ha ricordato che la sua prima copia di Molloy gli era «caduta in un fosso di Cambridge e dopo s’era disfatta». Ed è vero che forse solo disfacendolo, Beckett, lo si può seguire davvero. Mario Lavagetto ha fatto notare il lapsus in cui era incorso il Calvino che riassumendo uno degli ultimi drammi s’era attaccato alla clausola «Little is left to tell». Solo che Beckett aveva scritto, invece, «Nothing is left to tell». Anche lui, per poter «continuare» a dispetto di tutto, aveva dovuto ritrarsi dal fondo di sé stesso: quel buio conclusivo che è la rovina di tutte le cose. Se lo sentiamo fratello è perché lo stesso, arrivati a un certo punto, sentiamo di dover fare tutti noi.