La Stampa, 23 dicembre 2023
Baricco è felice
Cominciare da una pasta al ragù e finire a dirsi felice. Privilegiato e felice. Emozionarsi ancora, quando si consiglia Viaggio al termine della notte, perché sarà anche stato antisemita, Louis-Ferdinand Céline, ma ha cambiato la letteratura europea. Ridiscutere il nostro modo di stare al mondo, con il gesto politico al centro che però diventa altro: aggressività, insensatezza. Riflettere sul corpo, sulla torinesità, sul rigore sabaudo e il lasciare andare che impari crescendo, solo col tempo, quando anche le tre paure – sempre quelle – che ti porti dentro dai tuoi 15 anni diventano familiari. E ti fanno «bu» senza neanche più crederci troppo.Alessandro Baricco è il principe dei narratori. L’unico capace di parlare per due ore di tutto, dall’amatriciana che per colpa delle medicine sa di melanzana al pugilato alla politica alla letteratura (c’è sempre – dentro Baricco – la letteratura) senza che nessuna delle centinaia di persone accorse in una Feltrinelli di via Appia Nuova in un giovedì sera prenatalizio accenni minimamente a guardare l’orologio. O a un colpo di tosse. O a sbirciare per un attimo il telefonino.E certo saranno anche baricchiani osservanti, di quelli che hanno le videocassette registrate di «Pickwick» in un armadio di casa, che hanno visto dieci volte a teatro Novecento tutte e dieci sospirando, che ricordano ancora a memoria le frasi spezzate di Oceano Mare, ma è l’incantesimo della voce, del timbro, del racconto, dell’ironia, dell’intelligenza, a tenerli lì. Non la nostalgia dei venti anni, non la fissazione degli adepti.L’intervista di Matteo Caccia parte da dove si è concluso il podcast Wild Baricco, frutto di una felice collaborazione tra Feltrinelli (per la quale è uscito l’ultimo romanzo: Abel) e Il Post, fondato e diretto da Luca Sofri. E comincia dal cibo. Hai mai fatto una dieta? «Ho avuto dei momenti di idiozia per cui ho pensato fosse importante pesare due chili di meno, ma del cibo non me n’è mai fregato troppo. Per via dei farmaci i sapori sono un po’ impazziti. Mi avvento su un’amatriciana, ed è un’altra cosa. Quando ti bersagliano di medicine molte cose vanno a puttane. Ho avuto un figlio che è stato vegetariano per un certo periodo: ne è uscito».Rumori, risate.«Ricordo ancora il giorno in cui, dopo, siamo andati da Zibello a mangiare il culatello. È che vengo da un mondo in cui il cibo non era un gesto politico. Mangiavamo cose aberranti, mio padre fumava in macchina con i finestrini chiusi. Media borghesia torinese, neanche vicini alla povertà, ma a cena si mangiava un uovo sodo, il semolino. C’era un’idea di cibo sobria e non so da cosa venisse: se dalla guerra o dalla torinesità».Continua così, come una sessione jazz, o un romanzo di Geoff Dyer.Il passaggio su quando imparò a tirare di boxe per scrivere City e prima si ritrovò a fare il secondo – quello con la spugna a bordo ring – in un torneo di dilettanti veneti in Slovenia. La palestra a Roma, a Prati, a 38 anni: la stessa di Domenico Procacci che è tra il pubblico e sorride. La paura dei colpi: «Sono uno scrittore, lì la testa te la beccano. Domenico però ha mollato prima perché l’avevano messo a combattere contro una donna e lui è di Bari, è tornato a casa e ha strappato la tessera».La domanda sui due figli, uno di 25 e uno di 17 anni: preoccupato per loro?«Zero», è la risposta. «Vigilo, li guardo un po’ da lontano, poco da vicino. Li difendo da me, quando posso anche dalla madre. Vale quel che ha detto Vonnegut: chi fa figli dona ostaggi alla fortuna. Quando sei genitore lo sai, lo accetti. C’è questa preoccupazione di fondo, ma è un brusio. Sono molto più preoccupati loro: del futuro del pianeta, di quel che accade nel mondo. Cose cui quando avevo quell’età non pensavo minimamente. Per questo con loro mi viene da fare quello positivo, Anni ’90. Il grande ha 25 anni ed è arrabbiatissimo per la situazione sociale: mi dice tu non capisci, tu non hai idea di cos’è la vita vera. Mi cita esempi di chi lavora per 4 euro all’ora. Quando ragiona sul mondo che abbiamo consegnato nelle loro mani fa male. Non è tutta colpa mia, ma quel che dice quadra abbastanza».E poi: «C’è questa cosa che si nasce di sinistra e si muore di destra». Pausa. «È vera! Io sono coi piedi che tento di frenare la discesa verticale verso la destra, ma sono anche stato renziano quindi lì... Cerco di tenermi per non finire proprio con la Meloni».Il diciassettenne alla politica pensa molto meno. È culturalmente ricchissimo, ma il gesto politico non gli interessa. «Non mi permetto di giudicare. E penso anche, da tempo, che mettere al centro della vita la dimensione politica sia stato per noi un errore. Una sovrastima di qualcosa che rispetto ad altre tessere dell’esperienza non ha lo stesso valore. All’età di mio figlio grande i miei amici a Torino andavano a sparare. Ho conosciuto persone che si sono messe ad ammazzare per le strade di Torino pensando di combattere una guerra surreale. Questo succede quando carichi di importanza, di senso, una tessera particolare. Mi sono sempre chiesto se non sarebbe stato più utile imparare a vivere la politica come pratica ecologica invece che come pratica di aggressione violenta, spigolosa. San Francesco aveva a che fare con la politica, ma il suo segno nel mondo è stato un altro. Beethoven, uguale: era capace di dedicare una sinfonia a Napoleone e poi ripensarci, ma nel frattempo aveva cambiato il mondo dei suoni. Si può leggere il libro di un antisemita come Céline e innamorarsene, io di questo sono convinto».Baricco guarda una ragazza che ha convinto a leggere Viaggio al termine della notte. Lei sorride. «L’opera sta lì. Vai all’opera, è lei che ti parla. Gli autori che amiamo possono essere stati persone spregevoli: non penso che Salinger fosse un bel personaggio. Ed Hemingway? Vi sareste divertiti una sera a cena con lui? Ho incontrato tanti scrittori di cui adoravo i libri. Una sera a cena con accanto il premio Nobel sudafricano Coetzee ho cercato per tutto il tempo di fare il simpatico. Avrà detto 9 parole. Poi per un attimo si è destato e mi ha chiesto: chi è Elena Ferrante? E no, ancora questa storia!». Il viaggio in pullman con Don De Lillo: «Il più noioso della mia vita». La festa del New Yorker «nell’unica settimana di fama che ho avuto negli Stati Uniti: poi hanno scoperto che non ero italo-americano, ma italiano, di Torino. Avevano letto un libro tradotto (Seta) e lì la mia credibilità è crollata: non mi hanno più invitato».Ha riscoperto i polizieschi: «Dovendo passare una quantità di tempo negli ospedali ho riletto Sherlock Holmes». Il libro feticcio sul comodino è Memorie di un cacciatore, di Turgenev. E poi i racconti della maturità di Checov: «Mentre li rileggevo a letto davo di gomito a Gloria dicendo: è bellissimo, bellissimo. Ma non ho saputo spiegarle perché». Quando racconta la letteratura, Baricco si emoziona ancora: «Divento tutto rosso, parlare di libri è la mia grande passione da sempre, mi piace farlo ovunque tranne che in televisione».E quindi sì, chi mai ha sperato in un ritorno di Pickwick si deve rassegnare. «Ho problemi con la televisione e col telefono. Sono un disastro a telefonare, non so mai quando tocca a me. Mi sovrappongo, faccio casino». Quanto alla tv, «è una delle cose più false che abbia visto in vita mia. Ed è peggio quando le trasmissioni parlano di cose che amo e mentre uno sta dicendo una cosa profondissima tac, si spegne la luce, arriva la truccatrice che aggiunge il fard. Le mie trasmissioni sono state solo due perché ho cercato di essere autentico prima di capire che la televisione fosse così falsa. Andavo a braccio, altro che gobbo, loro mi chiedevano i testi, ma io non li avevo».Caccia dice che Pickwick è durato una sola stagione ma tutti pensano – ricordando – che siano dieci. Il pubblico mormora: «Ma come una sola?».È esilarante – bisogna ascoltarlo per capirlo – il racconto del confronto tra Roma e Torino: il parcheggio in doppia fila e le urla e gli insulti annessi, nella capitale. L’uomo di Chieri che dopo aver aspettato imbottigliato tutto il tempo di un cappuccino un cornetto e tante chiacchiere, gli dice solo, trafiggendolo con lo sguardo: «Io non dico niente». Il tempo che si libera, a Torino, quando sei abituato a Roma, al suo traffico e alla ricerca disperata di un parcheggio, talmente tanto che quasi non sai cosa farci. «Posteggio sotto casa, tac, sei minuti, e ora?». Il monastero: Torino. Il caos: Roma. Amati entrambi, par di capire. Come Procida e lo spirito di chi insegna che se si perde il bus non per forza bisogna subito pensare: e ora che faccio? Come risolvo? Quando si presenta «il problema» si può andar dietro con la schiena, emettere un sospiro, accettare che la giornata faccia un giro diverso. «Col tempo sono sempre più così – racconta Baricco – che liberazione».La storia dei corpi che dice più della storia delle menti. La teoria della palla lanciata da dietro, dall’allenatore di Agassi alla scuola Holden, e la sfida di fare sempre la cosa nuova, quella che non ti aspetti, che ti porta avanti: «Essere senza difese in un contesto che non conosci». I desideri cambiano, nella vita. Le paure no. La paura è seria, identitaria, fantastica, sempre lì. «Impari a conviverci, fate amicizia, alla fine ci si stanca e non è più la stessa cosa». Soprattutto se lasci da parte «l’incapacità di perdere, l’idea di controllare tutto sempre. Per cui può capitare che devi scendere dal treno a Milano perché hai dimenticato una cosa che non puoi dimenticare, vai in ospedale, la prendi, risali su un altro treno per Roma. Respiri».La prima volta che Matteo Caccia ha chiesto ad Alessandro Baricco come stai, lui gli aveva detto: «Faccio la vita che mi piace». Ora, dopo la malattia, dopo il trapianto di midollo, nel mezzo di cure difficili, dice: «Nei limiti di quello che il mio corpo mi consente di fare in questo momento, che spero saranno sempre meno in futuro, faccio la vita che mi piace fare. Sono un uomo molto fortunato, molto privilegiato. Molto felice». —