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 2023  dicembre 18 Lunedì calendario

Biografia di Arnold Schönberg

Cento anni fa Arnold Schönberg teorizzava la composizione con dodici note. Per una quindicina d’anni aveva forzato le regole del sistema tonale praticando la pantonalità e aveva già ideato lo Sprechgesang, rivoluzionando il rapporto tra parola e suono. Per lui non esistevano leggi eterne, ma solo indicazioni che hanno valore finché non vengono superate ed eliminate, del tutto o in parte, da condizioni nuove.
Per ben tre secoli la musica occidentale era stata governata dall’armonia tonale, fondata sulla centralità di una tonica (il do di un brano in Do maggiore), su cui gravitano secondo precise regole gli altri sei gradi della scala diatonica, e sulla successione di accordi tendenzialmente consonanti. La necessità di rinnovare il linguaggio musicale la sentivano un po’ tutti all’epoca, coerentemente con i rivolgimenti che toccavano ogni ambito della società, in politica, nelle scienze e nelle arti. La convinzione di Debussy di dover annegare la vecchia signora tonalità animava analogamente Stravinskij, Varèse, Bartók, Hindemith, Ives, Prokofiev, Cowell, si scoprivano scale pentatoniche ed esatonali da culture lontane, si sperimentavano forme libere, strutture slegate da metriche regolari, quasi improvvisando, soluzioni timbriche inaudite, politonalità, tritoni, microtoni, rumori, ritmi complessi.
Dal punto di vista dell’ascolto, nel periodo classico si era praticato un ascolto attivo, capace di seguire i temi, gli sviluppi e la costruzione musicale. Con la sensibilità romantica l’ascolto era diventato invece ricezione passiva, la musica era da percepire nell’immediato, per le atmosfere emotive evocate, mentre comparivano dissonanze sempre più complesse, volute per la loro potenza espressiva. L’emancipazione della dissonanza si poneva come una naturale conseguenza dell’evoluzione della musica tardo-romantica e assumeva aspetti diversi secondo le preferenze dei singoli compositori, fino ad aspirare ad accettare le dissonanze quanto le consonanze.
In questo quadro, Schönberg propose un metodo possibile, una soluzione personale che si dimostrò però determinante per i successivi orientamenti in musica, probabilmente per il fatto di essere la proposta più radicale. L’idea era di basare la composizione su una successione prestabilita di tutte le dodici note della scala cromatica (do, do#, ecc.) e di ripetere tale serie incessantemente, ammettendo trasposizioni, inversioni e retrogradazioni. Ogni nota sarebbe dunque apparsa lo stesso numero di volte, evitando che una assumesse importanza rispetto alle altre. Scomparivano le regole armoniche abituali e la gerarchia tonale, ma rimanevano le forme, la fraseologia, la metrica e l’espressività della tradizione romantica, mentre un flusso sonoro sempre più fitto creava soluzioni armoniche ancora inesplorate, profonde, nella Vienna Rossa che indagava i segreti dell’inconscio.
In verità la dodecafonia pura fu praticata poco. La scelta della serie connotava fortemente ciascun brano e rivelava l’approccio di un autore rispetto a un altro, Schönberg prediligeva i rapporti dissonanti, Berg le sonorità tonaleggianti, Webern gli agglomerati sonori essenziali, visionari nelle metamorfosi delle trame e dei colori. Lo stesso Schönberg la avrebbe presto abbandonata, passando a orchestrare corali di Bach e musiche da camera di Brahms: la rilettura di brani del passato era un’ulteriore e naturale conseguenza dell’evoluzione musicale, spunto per nuovi possibili ascolti. Ma vari altri autorevoli autori, da Stravinskij a Bartók, vollero esercitare la dodecafonia anche solo parzialmente. Nazismo e stalinismo invece la bandirono.
Quando nel secondo dopoguerra emerse ancora l’urgenza di trovare un linguaggio opportuno per pronunciare la musica, autori come Messiaen e Boulez pensarono di estendere l’esperimento della serie predefinita alle durate, ai ritmi e ai timbri dei suoni, ma il serialismo integrale sarebbe stato presto sorpassato. Intanto Cage, che rivendicava di essere stato allievo di Schönberg, investigava silenzi e situazioni sonore impreviste, mentre da Stockhausen a Ligeti a Berio le direzioni intraprese in musica si ramificavano, con strumentazioni elettroniche, influenze orientali, fasce sonore, opere aperte, strutture derivate da frattali, paesaggi sonori, intanto che la dodecafonia arrivava a influenzare persino il jazz, dove l’improvvisazione è tutto, da Mingus a Coltrane e Coleman, da variazioni su un tema a esecuzioni free su motivi dodecafonici.
Tornando all’ascolto: il giudizio dell’orecchio si modifica nel tempo secondo i mutamenti delle condizioni culturali, esperienze inizialmente ostiche diventano acquisite per essere poi anch’esse superate. Se nell’antichità suonavano eufoniche quarte e quinte (do-fa e do-sol), la terza (do-mi), dissonante fino al XV secolo, divenne in seguito l’intervallo consonante per eccellenza. Quante innovazioni, da Monteverdi a Liszt, hanno segnato svolte cruciali nella storia della musica! Per quanto radicali, le trasformazioni nascono dal proprio contesto per l’esigenza di abbandonare la prassi diventata convenzione. A costo di sembrare trasgressivo, il compositore sente di dover superare preconcetti ideologici e schemi accademici per rivelare nuovi volti della musica. Se i più conservatori ne rimarranno spaventati, tanti altri troveranno opportunità per andare ancora oltre.
Sale e teatri oggi offrono per lo più repertorio storico ma si tratta di un’abitudine piuttosto recente, in passato era uso andare a sentire l’ultima sinfonia di Haydn come l’opera commissionata pochi mesi prima a Rossini. Il pubblico ora rischia di intendere il senso della serata come un piacevole intrattenimento, o un’occasione per vestire estemporaneamente i panni del critico che vuole giudicare l’interprete, piuttosto che per ascoltare davvero la musica. Se dotato di un minimo di curiosità, troverà invece meraviglioso esercitare un ascolto moderno e scoprire i suoni del suo tempo, in continuità con il passato. E di questo sarà grato anche a Schönberg.