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 2023  dicembre 18 Lunedì calendario

Biografia di Raffaele Mattioli

di Paolo BriccoEsistono libri che sono aspettati con ansia dalla comunità italiana interessata al Novecento, ai suoi snodi e alle sue personalità. Raffaele Mattioli. Una biografia intellettuale è uno di questi. Francesca Pino, a lungo responsabile degli archivi storici di Intesa Sanpaolo, è stata dagli anni 80 l’appassionata depositaria della memoria di Mattioli e ha scritto, prima di questo tanto atteso opus magnum di una vita, non pochi articoli scientifici sul banchiere umanista.
Pino dichiara subito il suo metodo e la sua linea interpretativa. Mattioli è considerato soprattutto nel suo pensiero e nella sua influenza appunto intellettuale, che è stata così vasta e profonda da trasformare la banca – la “sua” Banca Commerciale – da un soggetto finanziario in una specie di infrastruttura culturale e sociale dello sviluppo italiano nel Secondo dopoguerra. Evidenzia l’autrice: «Anche se denso di fatti e avvenimenti, questo mio lavoro non risponde ai canoni della storia d’impresa e della banca, pur indicando alcuni tratti dell’imprenditorialità che sono ben riconoscibili in Mattioli. Ho limitato l’uso di modelli, schemi e comparazioni, e l’attualizzazione con rimandi a problematiche dei nostri giorni, cercando piuttosto di illuminare gli aspetti che permettono di collocare Raffaele Mattioli tra i “classici” cui si è tanto dedicato, e di dare alle nuove generazioni la possibilità di scoprirne il pensiero e il temperamento».
Questa biografia osserva il canone della narrazione temporale lineare. L’incipit apre uno squarcio sulle origini di Mattioli, che appartiene a una generazione di giovani provinciali arrivati da adulti a Milano: «Il ramo paterno della famiglia di Raffaele Mattioli era ben radicato a Vasto: il nonno Francesco Paolo è descritto come “negoziante” di pelli grezze e “pizzicagnolo” in un Indicatore generale del commercio del 1881».
Sui primi anni in Abruzzo, lo scrittore Alberto Vigevani riporterà così le confidenze ricevute da Mattioli: «A volte, con abbandono, mi raccontava memorie della propria infanzia, ricordi della giovinezza. L’inverno a Vasto faceva un gran freddo, Mattioli bambino usciva a spasso col nonno che portava un pesante mantello di panno nero. Quando nevicava, lo prendeva sotto l’ala del mantello e il bambino, con la mano, ne sollevava appena una falda: in quello spiraglio, quasi fosse praticato nel sipario di un palcoscenico, s’incantava allo spettacolo delle strade, delle case, del mercato con le sue bancarelle, della chiesa illuminata».
Ma il filo rosso più consistente e robusto che si dipana nel libro è, appunto, quello intellettuale.
Intellettuale nel senso della tecnica economica. E intellettuale nel senso della cultura umanistica. Sul primo versante – dopo l’esperienza esistenziale e politica, nel 1919, nella città occupata di Fiume, dove svolge la mansione di addetto stampa – Mattioli a Milano diventa caporedattore della «Rivista bancaria» e, nel 1920, scrive alla fidanzata Emilia: «La mia Rivista va sempre meglio. Mi è giunta oggi da Vilfredo Pareto una lettera che mi ha fatto molto piacere. Tu non sai chi è Vilfredo Pareto? È il più grande economista italiano, e senza dubbio uno dei più grandi del mondo».
La dimensione analitica permane nella costruzione di una idea di banca: sulla sua rivista compare assiduamente l’attività svolta a favore delle imprese dalle banche americane nel commercio estero, con lo studio dei mercati, della produzione e della distribuzione dei diversi settori.
Qui si coglie l’antica radice riflessiva da cui si genererà la Comit di Mattioli, capace di edificare il mito di sé stessa sul suo servizio studi e sulla sua funzione di bussola delle imprese italiane, dal boom economico, sui mercati internazionali.
Nella cultura umanistica, Mattioli è l’espressione della ricerca di una modernità nell’idealismo, nel senso di Benedetto Croce, e nel tentativo di contribuire alla sprovincializzazione della cultura italiana, resa senza respiro e senza visione da vent’anni di fascismo, attraverso l’organizzazione e la promozione culturale di istituti (per esempio l’Istituto Italiano per gli Studi Storici), di biblioteche, di gruppi di lavoro intellettuali.
L’elemento interessante – nella fusione di queste due accezioni di pulsione culturale – è il compromesso che il pensiero fa con la realtà e che, nella biografia di Mattioli, si traduce – già sotto il fascismo della recessione post crisi del 1929 e poi nella democrazia della ricostruzione – nella continua e assidua attività di elaborazione di strategie sistemiche a beneficio del Paese.
Nel suo dialogo serrato con l’establishment – di cui è una sorta di mago, di organizzatore e di incantatore – propone in una lettera del 28 maggio 1947 un manifesto di politica economica a Palmiro Togliatti, in risposta alla richiesta del capo carismatico e politico del Partito Comunista Italiano di avere un aiuto per capire la situazione monetaria e finanziaria.
Ricostruisce Pino: «L’invito del banchiere a Togliatti era quello di guardare ai fondamentali dell’economia del Paese, a “fare i conti” (come si continuava a dire e pensare nel suo entourage), e a non disinteressarsi della “sana finanza” che è un “interesse nazionale – di tutta la nazione – e se a qualcuno deve importare più che ad altri è proprio a quei ceti a cui più particolarmente il Suo partito si dirige”».
Pensiero e realtà, politica e finanza, tecnocrazia e umanesimo. Tutto nella vita del nipote del negoziante di pelle grezze di Vasto, Abruzzo, Italia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Francesca Pino
Raffaele Mattioli.
Una biografia intellettuale
Il Mulino, pagg. 404, € 34
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di Marco Onado
Raffaele Mattioli, storico dominus della Banca Commerciale Italiana e raffinato intellettuale, era convinto che il problema atavico della società italiana fosse la debolezza della sua classe dirigente. Anche all’apice del boom degli anni Sessanta egli ammoniva: «Tutto il periodo dall’Unità a questo secondo dopoguerra può in realtà configurarsi come una serie di occasioni e di tentativi diretti a dare finalmente vita a una classe dirigente adeguata». L’enfasi dell’avverbio e dell’aggettivo è nell’originale.
Il problema era diventato cruciale negli anni Settanta, quando – come ricorda Franco Continolo nella prefazione – Pasolini ammoniva che stava avvenendo un «mutamento antropologico» e questo stimolava Mattioli, che aveva sempre posto la formazione dei giovani al centro dei suoi interessi ad interrogarsi sul perché una classe dirigente formatasi nell’antifascismo e nella guerra di liberazione, e che era stata protagonista della ricostruzione postbellica, non avesse successori all’altezza dei tempi. La sua affinità intellettuale con Croce lo portava ad affermare con forza che la classe dirigente ha il dovere morale di guardare oltre i propri interessi e promuovere il cambiamento della società. Insomma, una classe dirigente ideale è quella capace non solo di difendere i diritti e le posizioni acquisite, ma di guardare avanti e promuovere il cambiamento.
Le iniziative culturali di Mattioli, dai classici italiani alla collana di studi storici, non erano fiori all’occhiello e tanto meno divagazioni dal lavoro di banca, ma parte integrante del suo progetto culturale e della sua vocazione a contribuire alla formazione delle nuove generazioni. In questa ottica, la fondazione dell’Istituto italiano per gli studi storici doveva assumere un ruolo strategico. L’iniziativa nasceva come scuola postuniversitaria di alto profilo, costruita intorno alla grande biblioteca di Croce e con l’attiva partecipazione del filosofo alla didattica. La missione era quella di allevare giovani talenti per le classi dirigenti del futuro. Non a caso, la nascita di questo istituto si collocava accanto alle grandi iniziative del meridionalismo del tempo: la Cassa del Mezzogiorno e la fondazione degli istituti di credito speciale per quelle zone. Iniziative fortemente volute dal governatore di allora, Donato Menichella; (ma anche dal valtellinese Saraceno) e che diedero grandi risultati prima di essere degradati a strumento del sottogoverno, al servizio di una classe dirigente in cui alla fine prevalsero le tendenze parassitarie. L’Istituto di studi storici si segnalò fin dall’inizio per l’eccellenza della formazione: gli allievi e i borsisti di quei corsi divennero studiosi di chiara fama nel campo della storia, della politica, della sociologia. Alcuni di essi parteciparono alla nascita dell’associazione Il Mulino di Bologna, animata da intellettuali appartenenti ad un’ampia schiera di orientamenti culturali e politici. Mattioli guardava alla sostanza delle idee, non certo alle fedi o alle tessere di partito, tanto che una delle sue frasi più ecumeniche (e sarcastiche) era: «Sono un liberale con tale dose di anarchia che mi consente di non essere necessariamente democratico. Sono un conservatore, con tale dose di senso storico che mi consente di non essere necessariamente anticomunista».
Negli ultimi anni della sua vita vedeva che, nonostante tanti sforzi e tante iniziative, il problema della classe dirigente anziché risolversi si incancreniva: capiva che stava prendendo il sopravvento la “razza padrona”, denunciata in quegli anni da Scalfari e Turani. Non per questo depose le armi, anzi, decise di moltiplicare gli sforzi. Di qui appunto il progetto di una “Associazione per lo studio della classe dirigente” che segnò gli ultimi anni della sua vita, caratterizzati dalla ignominiosa estromissione dalla “sua” Comit, ma anche da un clima politico che si incancreniva nella violenza e nel terrorismo. L’iniziativa non arrivò quindi oltre la redazione dello statuto e alcune riunioni preparatorie.
Il libro si compone,oltre che della prefazione di Franco Continolo, di quattro saggi rispettivamente di Francesca Pino, Marta Herling, Raffaele Romanelli e Brunello Vigezzi e offre una perfetta sintesi del bivio che si presentò all’Italia in quegli anni e che è sintetizzato in queste parole dello Statuto: «Nel momento stesso in cui si vorrebbe poter già sapere chi si assumerà domani compiti di direzione e di guida; nel momento stesso in cui ci si chiede intorno a quali nuclei finiranno col coagularsi le diverse spinte oggi operanti nella società, appare indispensabile e in qualche misura preliminare cercar di capire su che cosa il Paese si sia retto sinora, quale sia stato sin qui il suo tessuto connettivo, intorno a quali forze esso si sia ritrovato e in che misura. (…) L’Associazione sorge appunto per riesaminare la storia dell’Italia unita dal punto di vista, sin qui trascurato, della formazione della sua classe dirigente».
Il fatto stesso che l’Associazione non sia sopravvissuta al suo ideatore, la dice lunga su quali forze stavano prevalendo e rende ancora più attuale l’ostinazione di Mattioli nell’insistere sulla formazione. Una lettura quindi indispensabile per capire “come eravamo”, come dice il titolo di un film di Pollack di quegli anni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Francesca Pino (a cura di)
Sulla formazione
della classe dirigente.
L’ultimo progetto
di Raffaele Mattioli
Nino Aragno, pagg. 210, € 25