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 2023  dicembre 18 Lunedì calendario

Biografia di Vittorio Lingiardi

Come si usa ormai tra gli intellettuali dell’ultima (e penultima) generazione, si sta un po’ ovunque: collaborazioni a diverse testate, social, libri agili, interventi prêt-à-porter. È un rete diffusa di esperienze culturali che hanno creato la figura dell’intellettuale disorganico. E quando penso a Vittorio Lingiardi vedo immediatamente non già la vecchia immagine dell’isola sulla quale viveva il Calibano di turno, ma l’arcipelago con la miriade di piccoli territori sui quali si sposta velocemente. Ha scritto libri importanti nell’ambito del pensiero psicoanalitico. Ha vinto da poco il prestigioso Sigourney Award, per il lavoro pionieristico nella diagnosi psicodinamica. Ama il cinema (lo schermo come fosse uno specchio dell’immaginazione didattica), insegna all’università di Roma dove ci incontriamo nel bel mezzo di una settimana che più che annunciare l’inverno lo tiene a bada. Lingiardi è nato a Milano nel 1960. Proviene da una famiglia borghese, padre ingegnere, madre pianista e casalinga, una sorella alla quale è molto legato.So che ti dividi tra due città: Roma e Milano.«Sono nato nella zona di Porta Romana, dove si è svolta la mia crescita: le scuole, gli amici, il liceo. A Milano vivo con il mio compagno. Roma è la città dove insegno e dove trascorro parte della settimana. Mi trovo bene in questo pendolarismo».Ti trovi bene anche nella tua professione di psicoanalista?«Mi piace, l’ho scelta o forse sono stato scelto. Provengo da studi di medicina e a un certo punto ho pensato a una specializzazione in ematologia, salvo poi orientarmi verso la psichiatria».Gli studi di medicina hanno cambiato il tuo approccio alla psicoanalisi?«Hanno rafforzato l’aspetto diagnostico e la ricerca oggettiva dei costrutti psichici».È sufficiente?«Certo che no. Ogni paziente ha una storia individuale che l’analista deve rispettare. Karl Jaspers sosteneva che la diagnosi deve rimanere un tormento. È proprio il senso di inappagatezza che consente di riconoscere l’unicità del paziente».Non è un’illusione tenere insieme l’oggettività della diagnosi con le condizioni uniche del paziente?«La scommessa è conservare vive entrambe le cose. Se non superi la generalità della diagnosi è facile fallire.Dopo la maturità, a 19 anni, trascorsi un periodo a Trieste. Era il 1979. Mi sembrava fondamentale, per le scelte che avrei fatto, vedere dal vivo cosa accadeva nelle istituzioni manicomiali, affette da un vecchio e ormai superato positivismo».La psichiatria messa in crisi da Franco Basaglia.«Fu un punto di partenza fondamentale, anche se negli anni successivi mi lasciai guidare dall’immagine del “guaritore ferito”».Spiegati.«Appartiene al mito dell’analisi junghiana. Non è una contraddizione, ma la constatazione che l’analista è un essere umano».Con i suoi difetti e limiti?«Non può prescinderne. Per me scegliere la professione psicanalitica è stato anche un modo per curarmi. Fare i conti con la mia omosessualità».È stato difficile?«Negli anni Settanta e Ottanta la vita di un gay si immergeva nel conflitto sociale e familiare. La “ferita” non era nel fatto in sé ma nella difficoltà di poterla condividere con gli altri e in particolare con la mia famiglia».Che famiglia è stata la tua?«Non ho vissuto situazioni turbolente, né disagi domestici. Ma per quanto riguarda l’omosessualità nonho ricevuto aiuti. Per lungo tempo il problema ha galleggiato. Era lì, inespresso. Soprattutto con mio padre non c’è mai stato un vero confronto. Uomo moderato, di centro, amministratore delegato dell’Alfa Romeo, non ha mai voluto affrontare il problema. Sapeva, questo sì. Ma alla fine è prevalso quel senso di ipocrisia che alberga nelle famiglie borghesi».E tua madre?«Con lei il chiarimento fu esplicito e senza tragedie. La sensibilità di una donna, anzi la capacità di accoglienza, è molto più forte che in un uomo».Tua madre cosa faceva?«Avrebbe potuto essere una buona pianista ma si è dedicata a me e a mia sorella. Solo quando ci siamo resi indipendenti ha cominciato a occuparsi di logopedia, utilizzando anche la sua esperienza musicale».L’omosessualità può essere oggetto di studio?«Si studia, se vogliamo dire così, l’omofobia. Oggi poi la riflessione sull’identità è spostata sul genere più che sulla sessualità».Accennavi a Jung.«Ho una formazione junghiana. In seguito, grazie alla psicoanalisi di derivazione nord-americana, c’è stata la svolta relazionale. Penso soprattutto al grande contributo offerto da Stephen Mitchell».La relazione è tra chi?«Ciò che consideriamo soggettività umana si sviluppa nel contesto delle relazioni con gli altri: tra medico e paziente, tra il bambino appena nato e la madre, tra il nostro sé e l’ambiente. Anche se gli attuali lavori psicoanalitici riguardano le etnie, le minoranze, i generi e perfino i traumi provocati dalla guerra. Il rischio è che la psicoanalisi si spogli dei panni clinici e si vesta di quelli sociologici o filosofici».Sei contrario?«Non intendo questo. Ben venga tutto ciò che arricchisce l’esperienza analitica. Resta il fatto che per me la psicoanalisi è un modo per capire le relazioni tra persone, meno per comprendere il mondo come è strutturato».Capire una relazione cosa significa?«Chi decide di venire in analisi lo fa perché il disagio è troppo forte per affrontarlo da solo. A questo disagio va data una possibilità di ascolto che ottieni se riesci a collocarlo in una storia, in una memoria del passato».Diciamo in un racconto.«Un racconto condiviso della propria storia individuale.Ma il racconto siamo spesso abituati a immaginarlo come una finzione.«Non dovrebbe essere un problema. Anche il racconto di un sogno è il tradimento di quel sogno. È inevitabile.Come accade nella traduzione di un testo, così anche nel racconto di un’esperienza traumatica si rischia di perdere fatalmente qualcosa che appartiene alla sua scena primaria. Resta il fatto che per molte persone la sofferenza nasce dalla negazione dell’ascolto».Che valore dai alla guarigione?«La guarigione è qualcosa di relativo. Terminata l’analisi rimane una situazione insatura, incompiuta. La vita continuerà a produrre le sue delusioni. Perciò è chiaro che l’analista non è colui che davanti a una patologia ha una soluzione definitiva. Del resto, nessuno credo vorrebbe una vita del tutto prevedibile».A proposito di patologie hai scritto “Arcipelago N”, interamente dedicato al narcisismo.«Ho messo a fuoco alcune variazioni sul tema».Hai scritto: «Siamo tutti narcisisti, ma non allo stesso modo».«La difficoltà di un clinico è riconoscere il grado e la potenza di questo amore di sé. Partiamo dalla constatazione che tutti hanno bisogno dello sguardo dell’altro. Ma se questo bisogno diviene una celebrazionedell’amor proprio allora si entra in una dinamica fortemente narcisista».Come funziona questa dinamica?«Da un lato c’è chi ritiene di essere meglio di tutti gli altri, per cui verrà meno il sentimento della gratitudine e il rispetto dell’altra persona; dall’altro, c’è un narcisismo all’opposto: gli altri sono tutti meglio di me perciò si scatena l’invidia e il risentimento».Come fai a relazionarti con un narcisista?«Si dovrebbe curare il rapporto con il paziente come un giardiniere coltiva i suoi fiori. Occorre lentezza, pazienza cioè capacità di saper aspettare. Si deve entrare con fiducia in relazione con l’altro, ma per farlo bisogna anche esercitare una certa autodisciplina mentale».A che scopo?«Allo scopo di rendere “sana” la relazione. Un comportamento sbagliato è quello di chi cura con la propria personalità. L’analista guru che mette i propri tic o le proprie fantasie provoca molti danni, così come produce sconquassi l’analista esibizionista. Il paziente non può essere ridotto a un oggetto narcisistico, o meglio ancora a uno specchio che è lì per riflettere la bravura del medico».A proposito di specchi nel tuo lavoro ti occupimolto di cinema. Cosa vedi attraverso l’immagine dello schermo?«Per prima cosa chi guarda un film – pur conservando una certa distanza in quanto spettatore – è immerso in un’esperienza emotiva. Inoltre, un film è un repertorio di elementi narrativi e di immagini in movimento che lo spettatore restituisce in una storia che passa attraverso il suo vissuto. Freud, che pure non amava particolarmente il cinema, restò colpito dalla forza delle immagini e dal modo in cui coinvolgevano la folla, in questo caso romana. Perché, nel 1907, dal finestra del suo albergo sulla piazza Colonna vide un grande schermo dove si proiettavano una serie di immagini».Vuoi dire che fin dagli inizi del ’900 c’è un forte interesse della psicoanalisi per il cinema?«Fin dall’inizio si capisce che il linguaggio cinematografico è molto psichico, onirico e ha poco di logico-causale. Il fatto che il cinema possa abituare a usare la testa e lo sguardo fuori dall’esperienza cognitiva lo ha reso uno strumento didattico formidabile».Non c’è il rischio di una relazione troppo meccanica?«Dipende dall’uso che ne fai. Credo che ci voglia una certa libertà dagli schemi per analizzare un film e nel mio caso non è fatto con intenti critici semmai come una forma digioco. Ecco una parola importante, winnicottiana, che sta a significare il modo di stare nel mondo e nelle relazioni».Anche la poesia è una forma di gioco, tu hai scritto un paio di raccolte poetiche. Che posto occupa nella tua vita?«La prima cosa che mi viene in mente è che la poesia si accompagna alla mia timidezza».Non mi sembri un timido.«Nel senso che è lì, in quella forma riuscita o meno non importa, che io mi confronto con la parte meno visibile, con le ferite che ancora sussistono. La poesia è uno sguardo che abita dentro di me. È il modo con cui do una casa al mio dolore».Ti è utile nel tuo lavoro di psicoanalista?«La parola utile non è la più adatta per definire una relazione poetica. La penso come un salvagente che mi ha tenuto a galla in certi mari agitati e in certi momenti della vita».Di che cosa hai paura?«Ho paura di tutto quello che è eccessivamente selvatico. In fondo se c’è una cosa che ho compreso di me è il bisogno di addomesticare dolcemente tutto ciò che è forza incontrollata, violenta, senza nome».È una paura originaria.«Il trauma è all’origine di tutto».Prima accennavi al tuo compagno. Vuoi dire chi è?«Si chiama Luca Formenton. Sono più di trent’anni che stiamo insieme».So che vi siete sposati.«Prima a New York e poi a Milano. Mi sento fortunato per questa relazione».Perché?«Non vorrei essere enfatico. Ma Luca è la cosa più bella che mi sia capitata nella vita».Senti mai che la felicità del momento venga meno?«Ho perso mia madre a 24 anni. È da quel momento ho cominciato a riflettere sulla malattia e sulla perdita che la malattia può generare».Arrivando a quale conclusione?«Al netto del lutto elaborato, della tristezza provata, del dolore subito, direi che la malattia è paradossalmente un’apertura alla vita, o meglio una condizione della vita.Ho dedicato all’argomento Diagnosi e destino. È strano ma di un malato avverti la partenza e l’arrivo. È come se non esistessero più le fasi intermedie».Sei molto attratto dalle polarità.«È vero, la polarità mi fa pensare che non tutto sia governabile. Mi piacciono le polarità forti che ci caratterizzano. Ilsenex e ilpuerper esempio, come ci ricorda Hillman. Ilsenex è destinale, è Saturno. Ilpuer è mercuriale, narcisistico, egocentrico. Tra queste due polarità dovremmo cercare il nostro posto nel mondo».© RIPRODUZIONERISERVATAGli studi alla facoltà di Medicina, la giovinezza in una famiglia borghese, il dolore giovanile per la perdita della madre e la scoperta di Jung. Confessioni di uno psicoterapeuta che ama il cinema e la poesiadiAntonio Gnoli“PER ME SCEGLIERE QUESTA PROFESSIONE È STATO ANCHE UN MODO PER CURARMI, FARE I CONTI CON LA MIA OMOSESSUALITÀ”OIl ritrattoVittorio Lingiardi in un disegno di Riccardo Mannelli