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 2023  dicembre 17 Domenica calendario

Le parole dei medici

Macché rabbia. Appena un flebile fastidio appare la reazione di Renzo al cospetto di don Abbondio: «Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?». Ecco, la tensione della scena manzoniana si dissolve se paragonata all’astio bilioso che per oltre un decennio, dal 1363 al 1374, Francesco Petrarca riversa indefesso sui medici. Soprattutto: sul loro lessico. In una lettera a Boccaccio, raccolta nelle Seniles, si trova una considerazione brutale: «Disprezzo ed abborro que’ ciurmatori, che sotto una vernice di superficiale dialettica cianciano a vuoto invece di medicare...». Segue una sferzata ironica su un nervo che oggi, 650 anni dopo, è ancora lancinante: «Non aprono la bocca a dichiarare la malattia che non lo facciano con greca voce... Bei nomi invero, bei paroloni che a chi li ascolta danno diletto, e invogliano di sapere come in greco si chiami quello per cui soffre un latino, quantunque poi non si trovìn rimedii né latini né greci».
Tra l’impotenza di Renzo, schiacciato dal latinorum, e l’avversione del Petrarca, irritato dal grecorum , si muove un libro anomalo, corposissimo, difficilmente classificabile, perché scritto da un luminare della chirurgia, che è al contempo un umanista studioso della lingua: e che in questo caso ha lavorato con finalità etica. Renzo Dionigi lo dichiara nell’introduzione a Le parole in chirurgia. Dal Medioevo al SARS-CoV-2: «Medici e chirurghi dovrebbero convincersi della rilevanza civile, prima ancora che terapeutica, di rendere il paziente consapevole della sua malattia e dei modi di superarla. Il problema, ancor più che linguistico, è etico: fino a che punto dire la verità, in presenza di una prognosi infausta o comunque molto severa? Il desiderio di velare realtà sgradite spiega i sinonimi usati nel dialogo con i pazienti, ma persino nelle cartelle cliniche e nei referti».
Il risultato è uno sterminato viaggio (oltre 530 pagine) nelle parole della medicina: e nelle paure, le speranze, le sofferenze che intorno a quei vocaboli si coagulano. Con l’obiettivo di trovare la lingua migliore per dire la malattia.
La città delle parole. Ogni lingua (secondo Ludwig Wittgenstein) è una città. Quartieri storici e moderni, quartieri che s’aggiungono mentre altri rimpiccioliscono, o decadono, antichi palazzi tra costruzioni rinnovate, edifici che improvvisamente spuntano o crollano. Come una gigantesca cattedrale, ma col cantiere eternamente al lavoro. Così è anche la lingua medica: arabismi, grecismi, latinismi, francesismi, anglicismi, tecnicismi, eponimi, acronimi, sigle, neologismi. L’iper specialismo è obbligo e necessità. Il parallelo rischio Babele è reale. Punto dolente: «La comunicazione tra medici non può che essere specialistica e inespressiva per i profani. La comunicazione ai pazienti – dai foglietti illustrativi dei medicinali ai referti diagnostici – dovrebbe invece essere assolutamente piana, nel primo caso, o sufficientemente comprensibile, nel secondo».
Petrarca sbagliava. Fondamenta incrollabili di lessico medico: i grecismi. Hanno potenza comunicativa perché «insistono su elementi descrittivi» di anatomia, organismo, sintomi, patologie, procedure. Pochi esempi: cranio, alopecia, aneurisma, prostata, diabete, flebite, bronchite, laringe, esofago, herpes, emorroidi, arteria, sindrome (usati da sempre dai medici). E ancora: allergia, diarrea, nausea, terapia, trauma, dieta, amnesia, coma (nel lessico quotidiano anche dei non specialisti).
Sciroppo arabo. Fondatore della chirurgia moderna, il medico arabo Abulcasis è autore d’un’opera enciclopedica terminata nel Mille. «Molte pagine di Abulcasis descrivono accuratamente l’uso di strumenti dell’epoca (cauteri, coltelli, uncini divaricatori)». Tra i pochi arabismi che resistono dopo oltre un millennio, uno è celeberrimo: da sharb (arabo) a sirupus (latino) . Oggi: sciroppo.
Spugna salernitana. La cultura araba influenzò la scuola medica salernitana, al massimo splendore tra il Mille e il 1200. Primo grande chirurgo, Ruggero Frugardo, o Ruggero di Salerno. È l’epoca dei primi interventi maggiori. Problema principale, il dolore dei pazienti. Nel Post mundi fabricam, Ruggero parla della spongia soporifera. Racconta Dionigi: «La spugna veniva posta in un recipiente di rame con un micidiale cocktail di oppio, succo di more di rovo, edera rampicante, foglie di belladonna, lattuga e papavero e fatta bollire per ore fino all’assorbimento dell’intruglio, dopodiché lasciata essiccare al sole per un mese. All’occorrenza la spugna veniva fatta rinvenire, cotta a bagnomaria, e fatta annusare al paziente per farlo addormentare». Se le dosi non erano corrette, il paziente non si svegliava. Anestesia è un grecismo fondante nella lingua (non solo) medica; la spongia salernitana è scomparsa, come pratica e come vocabolo: ma il dolore fisico continua a tormentare l’esistenza del genere umano.
Focaccia latina. «Il latino si impone nella terminologia medica, in particolare anatomica, nella seconda metà del Quattrocento e nel Cinquecento, con effetti tuttora vivi» (anche se i Romani non produssero opere di scienza medica). Esempi: aborto, angina (derivato di angere: stringere), areola, nefrite (da un tardo latino, derivato dal greco nephrós: rene), placenta (dal latino placenta: focaccia), vertebra (da vertere: volgere). «È nel lessico che risiede uno dei più considerevoli e solidi contributi della medicina greco-romana alla medicina moderna».
Iniezione francese. Tra Settecento e Ottocento, il lessico italiano s’arricchisce di forestierismi e francesismi (termini francesi spesso a loro volta derivati da greco e latino): microbo, difterite, stetoscopio, bisturi. E poi: cardiologia, avitaminosi, linfatico, lipide, neurologia.
Tsunami anglicus. Nel 1992 Dionigi cura un monumentale trattato di chirurgia, da allora adottato in decine di università. All’epoca contiene un centinaio di lemmi inglesi. Nella settima edizione, anno 2022, gli anglicismi sono diventati un migliaio. Uno tsunami anglicus. Comune a tutte le comunità scientifiche, e alla vita quotidiana. La lingua si trasforma. Non è un male, né un bene. È un fatto. Ma attenzione al linguaggio iper specialistico, «che rischia di essere di difficile comprensione per gli stessi medici con altra specializzazione: un esempio è il gastroenterologo che deve interpretare cosa intenda il chirurgo quando, nelle dimissioni di un paziente, parla di sub-segmentectomia centrale (complesso intervento di resezione epatica)».
Tendini d’Achille. All’eroe greco si deve il più longevo eponimo in anatomia. Ma di eponimi, nel lessico medico, è proliferata nei secoli una smisurata colonia: riferiti a patologie (tiroidite di Hashimoto, anemia di Fanconi), anatomia (ampolla di Vater, cellule di Merkel, esofago di Barret), terapie e strumenti (sonde di Sengstaken-Blakemore, cistoscopio di Bozzini), interventi chirurgici (tecnica di Trabucco, tecnica di Ozaki). «Oggi – racconta Dionigi – gli eponimi sono considerati un elemento di disturbo». Perché sono poco concisi e descrittivi, una possibile fonte di equivoci. Nonostante ciò, nella lingua medica «sono una realtà vitale. Uno degli esempi più clamorosi di eponimo chirurgico, che ha creato una certa confusione nella trattatistica, è certamente la malattia di Basedow-Graves» (patologia autoimmune della tiroide), definita da diversi clinici (e qui sta il problema) nella prima metà dell’Ottocento. «In Europa è conosciuta soprattutto come malattia di Basedow, o malattia di Flaiani-Basedow, mentre nei Paesi anglofoni, per esempio Irlanda e Usa, è nota come morbo di Graves».
Esplosione d’acronimi. Le sigle di molteplice derivazione s’allargano fameliche nel lessico medico a partire dalla seconda metà del Novecento. Chi non ha mai avuto un sussulto, leggendo su una ricetta una (comunissima) formula del tipo cpX3? (una compressa tre volte al giorno). Se Aids o Tac hanno una semantica chiara e definita, «la moltitudine degli acronimi è una grave fonte di confusione. La sigla AP, per esempio, può essere adoperata in oltre quaranta accezioni, talvolta persino concorrenti: se è difficile confondere l’AP di ante partum con quello di “placca aterosclerotica”, il rischio è ben più concreto se con la stessa sigla è possibile indicare “fosfatasi acida” e “fosfatasi alcalina”, “pressione arteriosa” e “pressione aortica”, “polmonite acuta” e “polmonite da aspirazione”».
Sostituto sì o no. Punto decisivo. Lo individuano e dibattono nella doppia prefazione al volume lo storico della lingua Riccardo Gualdo e la linguista Ilaria Bonomi, entrambi accademici della Crusca: «Il tema della comunicazione tra specialista e paziente è centrale nella partita tra inglese e italiano: parole super specialistiche, come paravalvular leak in cardiochirurgia, restano inevitabilmente circoscritte all’uso tecnico», ma proprio «la circolazione ristretta le rende, per così dire, innocue». Altri anglicismi (check-up, day hospital, lifting) sono entrati ormai nella lingua comune, e dunque sostituirli non avrebbe senso. «Viceversa, per indicare quella zona del comparto operatorio che ospita i pazienti bisognosi di un monitoraggio continuo, è proprio indispensabile usare recovery room piuttosto che un più trasparente sala risveglio? Non è questione di purismo o di presuntuosa rivendicazione patriottica, è questione di funzionalità ed efficacia comunicativa».
Dilagante booster. L’ultima propagazione del lessico medico è l’intero grappolo di parole del Covid. Termini che, in una battuta del compianto professor Luca Serianni, «non hanno dovuto fare alcuna quarantena». Uno per tutti: booster. «È un anglicismo superfluo che andrebbe evitato nella comunicazione generalista», sostiene Dionigi. La corrispondente parola italiana è semplice, d’uso comune, esiste da prima del Novecento: richiamo. Col Covid, booster ha stravinto in un lampo. È un nodo critico, e ancora una volta non ha nulla a che fare con la difesa dell’italiano. Perché si tratta di un trattamento sanitario «rivolto a tutta la popolazione, presso la quale la competenza linguistica inglese è distribuita in modo disomogeneo». Ha detto Claudio Marazzini, presidente onorario della Crusca: «Ancora una volta si è persa l’occasione di aiutare gli italiani a capire meglio».