La Lettura, 17 dicembre 2023
Lorenza Mazzetti e la strage della famiglia Einstein
La lettera, indirizzata a Princeton al grande fisico tedesco Albert Einstein, è scritta da un suo ex studente, il maggiore Milton Wexler. Il primo americano che ebbe il compito di indagare su quel che accadde a Focardo la notte del 3 agosto 1944. Quando gli Alleati, per la precisione i militari inglesi, all’alba del 4 giunsero alla villa, tra i campi di grano e i cipressi che scendono verso l’Arno, trovarono i resti ancora fumanti delle mura. E i corpi di tre donne, Nina Mazzetti, 57 anni, Luce (27) e Annamaria, detta Cicci (18) Einstein: erano state fucilate con i mitra otto ore prima.
Sono la moglie e le figlie di Roberto Einstein, ebreo; mentre loro erano protestanti, valdesi. Il giorno prima i tedeschi erano venuti a cercare l’ingegnere Robert. Non lo avevano trovato. Avvisato dai partigiani, si era nascosto nei boschi. Mai avrebbe potuto immaginare che la sua famiglia, italiana, corresse pericoli. Non se lo perdonerà: di non aver dato protezione, di essersi rifiutato di credere – con il suo senso della giustizia, dell’universalismo umano, secondo l’ordine che imponeva in quella villa – che il male del nazismo potesse colpire, come una forza violenta e cieca, così ingiustamente. Undici mesi dopo, nell’anniversario di nozze con Nina, il 13 luglio si tolse la vita.
Ci furono dei sopravvissuti in questa strage: i contadini, due parenti e le due figlie «adottive» degli Einstein, le gemelle Lorenza e Paola Mazzetti (un particolare che, vedremo, è un filo rosso da dipanare in questa storia). Sono le figlie del fratello di Nina, che – rimasto vedovo – le mandò ancora bambine dagli Einstein in Toscana. Non erano – per i nazisti – dello stesso «sangue», non portavano lo stesso cognome. Chiuse al piano di sopra, furono risparmiate dalla fucilazione.
Attaccato sul tronco di un albero in giardino, gli Alleati trovarono questo biglietto. «La famiglia Einstein si è resa colpevole di spionaggio. Essa mantiene costantemente contatto con gli alleati nemici. La famiglia è stata passata per le armi il giorno 3 agosto 44. Il comandante». Era scritto in italiano, con la macchina da scrivere forse trovata nella villa. Fu l’ultimo atto dei nazisti in quelle zone, in una giornata segnata da incessanti colpi di mitragliatrici e fischi di cannoni: all’alba seguente, Rignano sull’Arno fu liberata.
Quando Thomas Harding, scrittore e storico inglese, sentì raccontare dai propri vicini a Firenze questa storia, due anni fa, sì stupì che fosse così poco nota. Si trovava in Toscana per un periodo di studio. È l’autore del bestseller Hanns und Rudolf, dedicato al comandante di Auschwitz Rudolf Höss. Nelle settimane seguenti incontra nelle valli fiorentine alcuni superstiti, si rende conto di quanto – tramandata nelle famiglie, e nei ricordi svanenti di chi era bambino – la storia abbia segnato la comunità. Ma anche di come l’Italia questa tragedia l’abbia rimossa, incapace di portarla alla luce. Eppure, ne sopravvivono mille frammenti. Negli anni 2000, a sessant’anni della strage, in Italia e in Germania furono avviate delle indagini. Ma non portarono a niente: nessun processo, nessun colpevole. Thomas Harding capisce che ha trovato il soggetto del suo prossimo libro. «Quello che mi affascina – dice a “la Lettura” – è quanto poco ancora se ne sappia».
Arriviamo così al 13 novembre scorso. In una spettacolare udienza che finirà sui giornali tedeschi, Thomas Harding vince la sua battaglia contro la procura di Frankenthal, nel Palatinato. Potrà avere accesso a tutti gli atti che la procura, dove alla fine si è arenata nel 2014 l’indagine sugli assassini degli Einstein, ha raccolto negli anni. Nove faldoni di documenti. L’avvocato Christoph Partsch, frequentatore anche lui di Firenze a cui Harding si è rivolto, è riuscito a ottenere un verdetto che i giornali giudicano storico. Poiché il materiale è di tale importanza anche per le relazioni tra Italia e Germania, il diritto all’informazione permette di esaminare e avere pieno accesso, come a un archivio storico, al materiale del procuratore. «È la prima volta che questo diritto viene concesso», dice Partsch. Ed è una rivoluzione per la libertà di stampa in Germania.
Ma Thomas Harding ha domande più urgenti. Come ha agito la procura? Perché la polizia criminale tedesca non ha mai esaminato il biglietto trovato sull’albero? «Non hanno neppure preso le impronte: sul foglio ci sono ancora quelle degli assassini».
Abbastanza per iniziare a scavare.
È singolare che per un delitto così irrisolto esista il racconto autobiografico di una sopravvissuta. L’ha scritto Lorenza Mazzetti, si intitola Il cielo cade (pubblicato da Sellerio, ne fu tratto un film con Isabella Rossellini). «Un libro stupendo – dice Harding – ma attenzione nel prenderlo come fonte: si tratta di un romanzo».
Le gemelle Lorenza e Paola si trasferirono dagli Einstein negli anni Trenta. E quel mondo attorno a Firenze, della borghesia europea votata alla musica e al libero pensiero, bisogna un po’ immaginarselo. Robert e Albert Einstein, oltreché cugini, erano legatissimi. Cresciuti a Monaco – dove i rispettivi padri possedevano una fabbrica elettrotecnica – hanno trascorso da adolescenti un’estate a Pavia. Nei dintorni di Firenze, a villa Samos, viveva l’amatissima sorella di Albert, Maya. E questi personaggi fanno continuo capolino nella villa, e nel libro.
Nel Cielo cade la storia è narrata dalla voce di una bambina impertinente, Penny – che «ama Gesù e ama il Duce» —, arrivata con la sorella Baby in questo strano mondo degli Einstein. Zio Wilhelm (Robert), invece, non prega Gesù. Le sorelline e i bambini del paese temono per la salvezza della sua anima, tanto da sottoporsi per lui a continue penitenze. C’è uno zio dalla grande testa bianca, severo (che le punisce, facendo scrivere sui quaderni cento volte «non si gioca a palla in salotto»), ma via via più amato. Finché si arriva al tragico epilogo della fucilazione: narrata attraverso i rumori sentiti dalle bambine chiuse al piano di sopra, mentre il pianoforte e gli specchi vengono spaccati. Così nitida che è difficile pensare che non sia anche una confessione.
Eppure di questo «romanzo» che uscì nel 1962 per intercessione di Cesare Zavattini e Attilio Bertolucci e che vinse il Viareggio opera prima, che stregò Federico Fellini, Lorenza Mazzetti raccontò solo molto tardi che era, in sostanza, la sua autobiografia. Nella postfazione del 1993 scrisse: «Questo libro vuol descrivere la gioia e l’allegria che mi ha dato quella famiglia accogliendomi come “uguale”, mentre sono stata uguale a loro nella gioia e “diversa” nella morte». Perché lei era, dice, «di un’“altra razza”». E si capisce solo leggendo il suo Diario londinese, che scrisse ormai ottantenne (anche questo pubblicato da Sellerio), quanto la tragedia la segnò. È il dramma dei sopravvissuti, che prima non raccontano per poter sopravvivere, e poi vivono con la colpa di non aver raccontato l’orrore.
Mazzetti, morta nel 2020, diventò una singolare regista del Free Cinema inglese, un personaggio, perfino un’attrice nel documentario Einstein Nichten di Friedemann Fromm . Negli ultimi anni, quando forse non aveva più bisogno della fiction per addomesticare la memoria, e i suoi ricordi potevano ormai fluire senza schermi, chissà quanto precisi e quanto rielaborati e quanto distorti, raccontò così il delitto Einstein nell’ultima intervista alla «Süddeutsche Zeitung»: «Il motivo della morte di zia Nina e delle ragazze era Albert Einstein. Era l’uomo che Hitler più odiava. Aveva lasciato la Germania nel 1933, non era solo ebreo ma pacifista e inveiva contra la Germania nazista. Un simbolo. E siccome non lo poteva uccidere, Hitler ordinò di assassinare la sua famiglia». Questa almeno, al termine della vita, la spiegazione che si era data.
Se il delitto Einstein è uscito dal cono d’ombra si deve allo storico Carlo Gentile. Il suo I crimini di guerra tedeschi in Italia è il manuale di riferimento in materia, lui stesso, che insegna a Colonia, è stato il perito dei principali processi sulle stragi nazifasciste. È il 2005 quando Gentile pensa di avere raccolto il materiale e di avere la possibile chiave del delitto. Informa il deputato Valdo Spini (l’unico politico che se ne è veramente occupato): sarà aperta un’inchiesta alla procura militare di La Spezia, diretta da Marco De Paolis. Poi Gentile consegna le sue ricerche anche in Germania alla «Zentrale Stelle» di Ludwigsburg, l’ufficio centrale che dal 1958 dirige le ricerche sui crimini nazionalsocialisti, che assegnerà l’indagine alla procura di Frankenthal.
«Avevo ricostruito e indicato dei nomi. Poi non spettava a me procedere oltre», dice a «la Lettura». Con meticolose ricerche sugli spostamenti delle truppe della Wehrmacht in base ai bollettini militari, Gentile ricostruisce che nell’agosto 1944 operava in zona il «Secondo battaglione» del 104° reggimento della 15ª Panzer-Grenadier Division. Lo stesso «Secondo battaglione» si rifugiò pochi giorni dopo al monastero di Incontro: il priore del convento raccontò poi a Robert Einstein (come, dice Gentile, è scritto nell’inchiesta alleata) che quei soldati erano stati al Focardo. «Io parto dal presupposto che in villa – dice Gentile – arrivò il comando di battaglione. Stiamo parlando tra capitano, sottufficiali e soldati di 20 persone». Facilmente individuabili, e individuati (ma qui tacciamo i nomi).
Però le conclusioni di Gentile non convinsero i magistrati tedeschi. Piuttosto, la procura alla fine escluse il battaglione di Gentile e, sulla base della testimonianza della figlia di un reduce deceduto, senza veri documenti, puntò in tutt’altra direzione, sulla Fallschirm-Sturmgestutz-Brigade 21. Ma non trovando prove per procedere, dopo 8 anni archiviò il caso. «Mi è veramente difficile capire le loro decisioni – dice oggi Gentile —, quell’unità operava lontano. Leggerò il libro di Harding, almeno saprò perché i magistrati conclusero così».
Ci sono due soluzioni alternative del giallo. Nel 2016 Lorenza Mazzetti, intervistata da una giornalista bavarese, Barbara Schepanek che le mostra delle fotografie, «riconosce» il comandante. È un soldato condannato per la stage di Padulle di Fucecchio, Johann Robert Riss. Ma nessun inquirente dà credito a questo improvviso e così tardo ricordo. Che quel soldato, di rango basso, dislocato lontano, potesse essere «il comandante» di Focardo, appare inverosimile. E resta, inoltre, in piedi la pista delle SS. O almeno così ritiene Marco De Paolis, il «cacciatore di nazisti» italiano e indagatore di tante stragi, da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, nonché – tra il 2006 e il 2008 – di quella del Focardo. Porterebbero alle SS alcuni dettagli: l’arrivo del comando in camion da Firenze, le testimonianze univoche dei contadini sulle «divise più scure» e la presenza di SS, la matrice politica del delitto. Solo che, obietta invece Carlo Gentile, a iniziò agosto non c’è più traccia della Sicherheitspolizei a Firenze.
Perché morì la famiglia Einstein? Perché «ebrea», per i contatti con i partigiani, per il cognome che portavano? Per un caso, visto come la violenza della Wehrmacht si sprigionò in quell’estate 1944 lungo le linee del fronte appenninico? «A me sembra che questa storia racconti così tanto dell’Italia – dice Harding —, delle difficoltà a venire a termini con le proprie responsabilità, dei silenzi del dopoguerra». È convinto che gli Einstein morirono in quanto ebrei. «Ma la tragedia all’interno di questa tragedia, è che le donne fucilate ebree non lo erano affatto. Erano valdesi. Però chi definisce l’identità? Tu stesso o l’identità è quella che ti affibbiano gli altri? È una domanda così attuale».
Se ormai è tardi e «il caso» non si risolverà mai – i protagonisti sono tutti morti —, almeno vale la pena che sia raccontato. O come chiede Lorenza Mazzetti, che sulla tomba degli Einstein a Badiuzza – simbolicamente – venga lasciato un fiore.