La Lettura, 17 dicembre 2023
Su Mimmo Jodice
Tra Vulcano e Nettuno. Da un lato il gigante che emette fuoco dalla bocca, diffondendo ovunque lava e lapilli. Dall’altro lato la divinità che abita in fondo al mare e governa mostri subacquei e tempeste. Dunque, da una parte il gusto per la sperimentazione, per lo scandalo, per l’azzardo. Dall’altra parte l’inclinazione alla ricerca, alla strategia, alla riflessione. In questa oscillazione è il senso dell’ostinata avventura poetica di Mimmo Jodice – al quale il regista Mario Martone dedica Un ritratto in movimento, presentato fuori concorso al Torino Film Festival, che andrà in onda venerdì 22 dicembre su Raitre – segnata da tappe, da viaggi, da incontri e da fascinazioni, come i paragrafi di un coerente romanzo di figure.
Dapprima, l’età vulcanica. Anni Sessanta e Settanta. I tagli, gli strappi, i nudi. Sorretto dal bisogno di decostruire la grammatica tradizionale della fotografia, Jodice – che il 24 marzo 2024 compirà novant’anni – nella camera oscura si affida a ritualità quasi performative: sull’ingranditore dispone scatti che, con l’abilità di un montatore e con la sapienza di un alchimista, altera, deforma. Intraprendendo una sorta di action photography, coniuga riconoscibilità e straniamento. Con un’attitudine analitica, disarticola il discorso visivo in unità linguistiche finite e costanti. Un atto radicale, che riporta a una stagione attraversata da un benefico vento di follia, promossa da alcune gallerie private (Lucio Amelio, Lia Rumma, Pasquale Trisorio, Peppe Morra): l’approdo, a Napoli, tra gli altri, di Joseph Beuys e di Andy Warhol, di Robert Rauschenberg e di Joseph Kosuth. Con questi protagonisti delle seconde avanguardie del Novecento Jodice avvia un fecondo dialogo, che avrà evidenti incidenze sui suoi esercizi di stile degli esordi, poi ripresi in cicli successivi (come Eden e Natura).
A questa fase ne segue un’altra caratterizzata da una profonda sensibilità politica, civile, sociale. Ecco, allora, le investigazioni antropologiche: i manicomi, le contestazioni, gli scioperi nelle fabbriche, l’epidemia del colera a Napoli, l’Italsider di Bagnoli. In filigrana, alcuni stati d’animo ricorrenti: disperazioni, dolori, rabbie. La vita come solitudine e come conflitto.
Dagli anni Ottanta, progressivamente, la presenza dell’uomo si è dissolta nelle drammaturgie di Jodice, il quale, sulle orme di rimandi alla classicità e alla Metafisica dechirichiana, si dedica ad attente ricomposizioni, animato dalla volontà di combinare documentarismo e lirismo, immediatezza e calcolo. Impegnato a reinventare la tradizione del vedutismo ottocentesco, sceglie alcuni scorci archeologici (in Mediterraneo) e urbani (in Città visibili), per coglierne le qualità segrete. Con una postura inconfondibile, si appropria di «cartoline», per condurre verso le geografie del magico. Muove dal presente, per iscriverlo in un’attesa prolungata. Il suo fine: abbassare il volume. Uscire dalla storia. Abitare i territori del senza tempo. Congelare brandelli di mondo. Arrestare il divenire del visibile. Ripulire quel che esiste di ogni imperfezione. Collezionare passaggi a vuoto. Eternizzare l’istante. Nascono così le sue inintenzionali nature morte, fermate in un’oscurità luminosa, scolpite in un bianco e nero ricco di sfumature.
Si pensi alla serie sulle metropoli. Fondamentale è l’angolo nel quale Jodice si colloca. Si libera della cronaca, rendendo piazze, strade e porticati ignoti a se stessi. Rallenta il dinamismo della vita. Allontanare il caos di una realtà disgregata. Apre brecce negli scenari convulsi della quotidianità, per introdurci in autentiche città-stati d’animo. È come se innalzasse templi al silenzio. Che è negazione parziale. È una diversa forma di sonorità, che tiene in sé ancora sussurri lontani. Ed è qualcosa che si oppone al rumore, senza annullare il linguaggio. È attimo che va posto sempre in relazione con qualcosa. Ed è esito radicale di un brusio, che si fa indistinto.
Sono nature morte modulate da un fotografo nato sotto Saturno, il cui temperamento ha alcune consonanze con quello del melanconico descritto da Susan Sontag in un saggio su Walter Benjamin: «È il mondo ad arrendersi allo sguardo indagatore dei melanconici, come non fa davanti allo sguardo di nessun altro. Più inanimate sono le cose, più potente e ingegnosa può diventare la mente che le contempla».
Questa filosofia dell’arte è al centro del Ritratto in movimento di Mario Martone. Un lavoro che, insieme con la recente autobiografia di Jodice scritta con Isabella Pedicini (Saldamente sulle nuvole, edita da Contrasto: «la Lettura» #592 ne ha scritto il 2 aprile scorso), idealmente va a formare un dittico autobiografico.
Scritto da Martone con Ippolita Di Majo, questo documentario combina interviste, materiali d’archivio e fotografie in una trama unitaria. Ne emerge un racconto fatto di visioni, di parole, di testimonianze, accompagnato dalle parole di Carlo Levi lette da Andrea Renzi («Le fotografie di Jodice così ricche di penetrazione umana e di acuta evidenza, nei volti, nei gesti, negli accostamenti, nelle scelte del senso nascosto, della verità di quelle azioni e di quei rapporti»).
Innanzitutto, ecco Angela, moglie, musa, vestale, complice, coautrice. E, poi: Francesco Vezzoli, Antonio Biasiucci, Marino Niola, Stefano Boeri, Lia Rumma, Lucia e Laura Trisorio. Nel continuarsi, queste voci colgono lati diversi dell’esistenza e dell’opera di Jodice. Che Martone osserva con un misto di rispetto e di amore, assumendo un atteggiamento quasi «servile» (secondo Cesare Garboli, i critici migliori si mettono «al servizio» dei testi). Ne ripercorre le origini, nelle sequenze dove si vedono scorci del quartiere della Sanità. Lo incontra nel suo studio, dove i ricordi si affollano. Lo segue nell’archivio, stratificato di faldoni con negativi. Ne ascolta le confessioni: i segreti nascosti dietro gli artifici utilizzati. Lo spia nella camera oscura, sua parentesi protettiva: i movimenti lenti e precisi delle mani. Lo mostra mentre sta per scattare una fotografia, dinanzi al suo mare. Fino allo struggente epilogo. Quasi un addio: «Vorrei ricominciare daccapo!», dice Jodice a Martone, al quale abbiamo chiesto di farci entrare nelle ragioni sottese a questo piccolo film.
Com’è nato «Un ritratto in movimento»?
«Da una sollecitazione di Roberto Koch, che mi ha chiesto di realizzare un cortometraggio di quindici minuti su Mimmo, muovendo da una sua recente mostra nella sede di Gallerie d’Italia a Torino. In seguito, ho avvertito la curiosità di allargare il campo, intervistando anche alcuni suoi compagni di strada. Non storici della fotografia né critici d’arte, ma figure che lo hanno conosciuto e frequentato. Un antropologo (Marino Niola), un artista (Francesco Vezzoli), un fotografo (Antonio Biasiucci), un urbanista (Stefano Boeri), alcuni galleristi (Lia Rumma, Laura e Lucia Trisorio). E, innanzitutto, Angela. Ognuno ha parlato del “suo” Mimmo».
In che modo ha montato insieme le interviste a queste personalità con quelle a Jodice stesso e con diversi materiali di archivio? Si tratta di una tecnica già sperimentata nel suo recente omaggio a Massimo Troisi («Laggiù qualcuno mi ama»).
«Con Ippolita Di Majo ho scritto la sceneggiatura. Con un obiettivo: costruire un racconto per immagini, dotato di una precisa idea di struttura narrativa».
Si tratta di un racconto nel quale lei sceglie di non far sentire la sua presenza autoriale. Si pone fuori campo.
«Mi interessava osservare Mimmo attraverso la macchina da presa. Le sue mani, i suoi occhi, la sua maestria tecnica, la sapienza artigianale del suo fare. Ne ho voluto sottolineare la forza quasi mitologica. Un veggente, che ha vissuto una lunga storia».
La filosofia dell’immagine che consegna Jodice sembra lontana dalle liturgie care alla Photo Generation.
«Interrogare Jodice oggi può avere una valenza addirittura politica. In un’epoca bombardata da immagini, che arrivano da ogni fonte su eterogenei supporti, Mimmo propone una diversa concezione. Prima di scattare una foto, attende a lungo. Osserva, si allontana, medita, poi ritorna, per catturare la luce esatta. Le sue immagini si distendono nel tempo».
In passato, lei si è misurato con l’arte, girando documentari su Lucio Amelio («Terrae Motus»), su Luca Giordano, su Caravaggio e su Francesco Hayez.
«Mi affascina la possibilità di realizzare affreschi storici fondati sul dialogo con gli artisti. Non assumo la posizione del critico. Mi pongo da artista che parla con altri artisti».
E perché Jodice? Che cosa sente di avere in comune con lui?
«Mimmo è sempre rimasto fedele al suo sguardo. È uno sguardo che insinua domande. In questo gesto riconosco una mia necessità. Inoltre, condivido con lui un’idea di ciclicità del lavoro: una visione orizzontale della storia. Pensiamo alle sequenze conclusive del documentario. Mimmo apre diversi cassetti del suo archivio. Ne tira fuori le prime fotografie: i tagli, gli strappi, i nudi. E confessa di voler ricominciare dall’inizio. Un’affermazione che sento vicina».
L’itinerario di Jodice suggerisce un transito dalla decostruzione alla ricostruzione. È la medesima traiettoria che sembra descrivere la sua ricerca di regista: dagli esordi d’impronta avanguardistica («Tango glaciale», 1982) ai film con un impianto più classico («Qui rido io», 2021 e «Nostalgia», 2022).
«Esistono alcune differenze. Mimmo è un uomo del Novecento. Io ho un’anima divisa a metà, tra due secoli. Certo, i miei spettacoli teatrali giovanili erano esplosi, mentre quelli più recenti sono maggiormente narrativi. Ma ancora oggi avverto in me strappi, interruzioni, tempeste. Il mio non è un viaggio fatto di abiure: mi interessa abitare la profondità del tempo. Non so se approderò mai all’astrazione metafisica raggiunta da Mimmo».
Infine, la Napoli degli anni Settanta e Ottanta, evocata anche nel film «Capri-Revolution», nel documentario su Amelio e in quello su Troisi. Un contesto vittima di un paradosso. A Napoli l’arte si è manifestata con maggiore forza proprio nelle fasi in cui la classe politica è apparsa meno attenta a difenderne le ragioni. Ricordiamo proprio la città nella quale matura Jodice: disperata, corrotta, eppure meravigliosa officina per i linguaggi artistici, abitata da figure che hanno concepito il loro lavoro come esperienza civile, come irrequieta risposta a uno scenario maledetto.
«Nella mia formazione, sono state decisive rassegne come Nuova creatività del Mezzogiorno, promossa da Amelio nel 1978. In quegli anni difficili, accade qualcosa di straordinario. Pittura, scultura, teatro, cinema e musica si parlano, entrano in contatto, stanno insieme, si contaminano. Saltano confini. Si abbattono frontiere. Si travalicano barriere. L’opposto di quel che succede oggi. Se ci guardiamo intorno, si edificano soprattutto muri».
Formidabili quegli anni.
«Sì, davvero formidabili. C’è solo una parola per parlare di quel clima. Una parola semplice e bellissima: libertà».