La Lettura, 17 dicembre 2023
Sulla Via della Seta
Pochi Paesi hanno il senso della storia e della sua continuità come la Cina. La Repubblica popolare proclamata da Mao Zedong nel 1949 si vanta di essere erede della cultura plurimillenaria delle dinastie imperiali (è anche un modo per sentirsi superiore agli Stati Uniti). Quando dieci anni fa parlò per la prima volta della sua Nuova Via della Seta, Xi Jinping evocò le carovane di cammelli dirette verso Occidente che fin dal secondo secolo prima di Cristo attraversavano deserti, montagne, valli, steppe, mari, fiumi e pianure. Il presidente cinese non dimenticò di citare i viaggi di Marco Polo alla ricerca della fonte di quella ricchezza. Quel giorno del settembre 2013 Xi era nella remota Astana in Kazakistan, dopo una lunga missione negli «Stan» ex sovietici che lo aveva portato anche a Samarcanda in Uzbekistan, mitico crocevia della originaria Via della Seta. Disse che la visita nell’antica oasi gli aveva infuso una vena poetica e cominciò il suo discorso così: «I nostri Paesi sono lontani, ma le nostre anime sono vicine. È tempo di tornare a viaggiare». Poi il progetto: «Vogliamo lavorare insieme per costruire un’area di cooperazione regionale che rafforzi le comunicazioni politiche, i collegamenti stradali, facilitando i commerci e la circolazione delle nostre valute».
La sua idea iniziale era tutto sommato modesta, un corridoio economico tra Cina e Asia centrale, basato su semplici accordi doganali. Quasi nessun analista in Occidente aveva prestato attenzione alla frase chiave: creare «una cintura economica lungo l’antica Via della Seta per aprire un mercato di tre miliardi di consumatori». Il presidente cinese era un soggetto poco conosciuto, non era ancora leader a vita con il suo Pensiero iscritto nella Costituzione del Partito-Stato della seconda economia mondiale, non era entrato in una guerra fredda con gli Stati Uniti. Ma già a ottobre del 2013, in un secondo discorso davanti al Parlamento indonesiano, Xi allargò la sua visione prospettando «una Via della Seta marittima per il ventunesimo secolo». Anche quell’invito sembrava solo retorica amichevole circoscritta geograficamente ai vicini dell’Asean, le nazioni del Sudest asiatico che si affacciano sull’oceano. In cinese, il piano abbozzato nei due discorsi suonava come yi dai yi lu: «Una cintura (terrestre) e una strada (marittima)».
Sorprendendo l’Occidente (e rendendo subito sospettosi gli americani), quello che era sembrato un gioco di parole cinese diventò rapidamente un piano di infrastrutture globali che prometteva investimenti per mille miliardi di dollari dalla Cina all’Europa, passando per l’Asia, il Medio Oriente e toccando l’Africa. I pianificatori di Pechino ne hanno anche cambiato diverse volte il nome, fino a Belt and Road Initiative (Bri) che è il marchio internazionale e oggi contiene una Via della Seta digitale, una polare, una spaziale, una per l’energia verde, anche una Via sanitaria (quest’ultima ispirata dalla pandemia, quando il governo cinese per fare dimenticare l’origine del Covid spedì nel mondo centinaia di milioni di mascherine, tute protettive e infine vaccini dall’efficacia non eccelsa).
Gli analisti hanno osservato che Pechino da tempo cataloga ogni forma di investimento all’estero come parte della Via della Seta. I tecnocrati di Xi nel 2015 hanno lanciato anche una banca internazionale con la missione di convogliare i fondi per i progetti: la Asian Infrastructure Investment Bank ha cento miliardi di dollari di capitale e un centinaio di Paesi soci guidati dalla Cina che detiene il 30% del potere decisionale. Una sorta di concorrente mandarina del Fondo Monetario e della Banca Mondiale.
Nel gennaio del 2017 Xi è stato il primo segretario generale del Partito comunista cinese a salire tra le montagne svizzere di Davos per arringare i capitalisti del World Economic Forum. Annunciò che la Cina avrebbe raccolto e investito mille miliardi di dollari per contribuire a connettere Asia, Medio Oriente ed Europa in «una comunità dal futuro condiviso», parlò di ferrovie lunghe migliaia di chilometri, di autostrade di asfalto e di altre, informatiche, per la trasmissione dei dati, di centrali elettriche, porti, aeroporti e impianti industriali, invitò il mondo a «salire sul treno della globalizzazione», proponendosi di fatto come capo stazione.
Proprio mentre Xi incantava la platea di Davos, a Washington Donald Trump entrava alla Casa Bianca portando la sua dottrina America First che spaventava gli alleati degli Stati Uniti nel mondo. Il discorso di Xi in stile Davos man, fu uno spot perfetto per la Belt and Road Initiative. Fino ad allora avevano firmato documenti di adesione solo 26 governi (5 nel 2014, 16 nel 2015 e di nuovo 5 nel 2016). Nel 2017 se ne aggiunsero 31 e Pechino potè celebrare il primo Forum Bri che diede ulteriore slancio. Il 2018 fu l’anno del boom, con 67 nuovi iscritti, nel 2019 ancora 15 adesioni. Oggi, sul portale online yidaiyilu.gov.cn sono censiti 154 Paesi aderenti, l’80% dei 193 Stati riconosciuti dalle Nazioni Unite. La Via della Seta è diventata una rete globale di almeno sei corridoi terrestri e marittimi, con la Cina al centro.
L’Italia, che con il premier Giuseppe Conte aveva firmato nel 2019 il famoso e poi famigerato Memorandum d’intesa sulla Bri, si è ritirata in questo mese di dicembre con una comunicazione il più possibile delicata, elaborata dallo staff diplomatico di Giorgia Meloni. Il governo italiano si propone comunque di mantenere i rapporti commerciali con Pechino e questa volta siamo noi a rispolverare il mito di Marco Polo: si sta preparando per il 2024 una visita di Stato del presidente Sergio Mattarella nella Città proibita, per le celebrazioni del settecentenario della morte del grande esploratore veneziano.
Un segnale della volontà italiana di mantenere il «partenariato strategico» con la seconda economia del mondo. Sono comunque archiviati i progetti di aprire i porti di Venezia e Trieste agli investimenti cinesi. Xi aveva giocato sulla suggestione del terminale italiano per la Via della Seta marittima, «come nei tempi epici dell’Antica Roma e della Dinastia Han» (206 avanti Cristo-220 dopo Cristo). I Romani peraltro pare non sapessero nemmeno se la seta fosse di origine animale o vegetale e l’attribuivano al «popolo dei Seri». La definizione Via della Seta fu coniata dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen nel 1877: Seidenstraße la chiamò il barone. Si fa prima a dire chi non partecipa che a elencare gli iscritti: non hanno voluto sottoscrivere il piano di Xi gli Stati Uniti, naturalmente, e poi Giappone, India, Australia. L’Europa occidentale è fuori, anche se nel 2018 si contavano 3.100 investimenti diretti cinesi in aziende del vecchio continente. Manca anche la Nord Corea, che pure commercia quasi solo con la Cina e avrebbe tutto l’interesse a ricevere fondi con la copertura della Via della Seta. Evidentemente Xi ha valutato che associare il «cliente» Kim Jong-un sarebbe stato troppo rischioso. Il Maresciallo di Pyongyang trovò il modo di farsi sentire al Forum Bri del 2017 con un missile intercontinentale lanciato proprio mentre Xi teneva il suo discorso sul «progetto del secolo».
In nome delle Vie della Seta, i cinesi hanno acquistato o costruito porti in tutto il mondo, dal Pakistan allo Sri Lanka, all’Africa (un centinaio), al Pireo. L’ultimo colpo è stato a maggio, quando dopo molti ripensamenti e polemiche il governo tedesco ha concesso alla compagnia statale cinese Cosco di prendere il 24,9% di un terminal per navi portacontainer nel porto di Amburgo. Il Piano Marshall americano che ricostruì l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale spese 130 miliardi di dollari a valori attuali, mentre la Belt and Road cinese ne ha stanziati finora mille per un numero di progetti che varia da 3 mila a 20 mila a seconda dei calcoli. Però, in decine di Paesi in via di sviluppo, in Asia e Africa, sono state costruite cattedrali nel deserto che sono servite soprattutto a garantire appalti alle imprese di Pechino e ad assorbire il suo eccesso di capacità produttiva nel cemento e nell’acciaio. In più, molte opere sono state contestate per i costi ambientali, le violazioni dei diritti dei lavoratori, scandali di corruzione. Washington ha accusato la Cina di «attività economica predatoria», indicando la Bri come una via opaca verso la «trappola del debito». Il 55% per centro di quei mille miliardi di dollari di crediti cinesi è arrivato a scadenza e l’80% è a carico di Paesi in via di sviluppo, come Sri Lanka, Laos, Cambogia, Pakistan, Mongolia, Zambia, Etiopia, hanno rilevato a novembre gli analisti americani di AidData. Xi e compagni tecnocrati della Repubblica popolare si sono trovati così a dover svolgere il ruolo poco popolare di «gestori di crisi finanziarie internazionali», che tradotto in un termine più brutale significa che la Cina è diventata il primo esattore mondiale di debiti. A onor del vero, AidData segnala anche che Pechino ha ampiamente superato gli Stati Uniti come lender of last resort, prestatore di ultima istanza a Paesi arrivati al punto di non poter onorare i debiti.
Sono i percorsi tortuosi delle Vie della Seta. Ne avevamo parlato ai tempi del Memorandum di Roma con Parag Khanna, autore del bestseller The Future is Asian, tradotto dall’editore Fazi come Il secolo asiatico? con un prudente punto interrogativo. «La Belt and Road è finora il progetto diplomatico più significativo di questo secolo e anche se l’Occidente non se n’era accorto, è cominciato dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Solo che la gente non ha saputo dell’impegno cinese nelle infrastrutture in Asia fino a quando il piano non ha avuto un nome nel 2013. Quei Paesi non ricevevano investimenti di alta qualità e significativi da Banca Mondiale e istituzioni internazionali. Così la Belt and Road è diventata necessaria e inevitabile», ci spiegò il politologo nato in India e naturalizzato americano. «E c’è un altro fatto: per la Cina non è cominciata come strategia di espansione ma per motivi difensivi, per mitigare il rischio della Trappola della Malacca, lo stretto (tra la Malaysia peninsulare e l’isola indonesiana di Sumatra, ndr) attraverso il quale devono passare i loro prodotti diretti verso i mercati globali e arrivare le materie prime utili al sistema cinese. Alla Cina servivano altri corridoi di passaggio. Poi sono seguiti necessariamente accordi commerciali, investimenti, intese diplomatiche e anche legami militari, ma questo non significa egemonia o dominio dell’Asia».
Le strategie comunque possono cambiare. Lo scorso ottobre a Pechino si è svolto il terzo Forum della Bri. Ospite d’onore è stato Vladimir Putin, contento di poter viaggiare nonostante l’incriminazione ricevuta dalla Corte penale internazionale dell’Aia per la deportazione di migliaia di minorenni ucraini. Lo zar aspetta sempre che la Cina sigli l’accordo per la costruzione del nuovo gasdotto russo Power of Siberia 2. Ma Xi prende tempo: al Forum questa volta ha detto che i progetti futuri della Belt and Road saranno «più piccoli e intelligenti». Poi ha promesso altri cento miliardi di dollari in «cooperazione di alta qualità».