Avvenire, 22 dicembre 2023
Ritratto di Gianni Brera
Quando arriva Natale, ripenso sempre a un 19 dicembre di trent’anni fa (per la precisione 31, era il 1992) quando giovane universitario mi svegliai un mattino triste all’alba alla notizia della morte di Gianni Brera. Dopo la fine precoce di Beppe Viola, dieci anni prima, 17 ottobre 1982, un colpo duro per un giovane innamorato di quelli che sapevano dell’Abatino calcio di poesia, prediligendo e divulgando di testa, di pancia e di cuore il calcio di prosa da Rombo di tuono. Durante le pause delle lezioni di Filosofia tiravo fuori dai libri qualche brandello di ritaglio di giornale con l’articolo del gran Gioânn. E mi inebriavo con i suoi pezzi, unici, in cui appresi i rudimenti, anche filologici, per il mestiere che faccio, praticamente da sempre. Ma a portarmi nel meraviglioso mondo di Brera è stato Andrea Maietti, il suo biografo «nominato sul campo» dallo stesso Gioânnbrerafucarlo. Lo chiamava il Professeur al nostro zio Athos , nume tutelare dello storico presidio di letteratura sportiva, Em Bicycleta (nato nel 2004 e momentaneamente in vacanza) al quale, noi senzaBrera, dobbiamo la curatela degli scritti breriani dell’Arcimatto e l’imprescindibile Calciolinguaggio. Nell’ultima stagione il Professeur ha seminato altri scampoli di letteratura breriana, prima con l’intimistico e struggente L’ultima fuga di Coppi e Mariellina. Sui tornanti della vita (Diabasis) e ora un affresco altrettanto personale in cui Maietti racconta il suo amato Gioânn privato in Papa Lombardei, una vita con Gianni Brera (Diabasis. Pagine 113. Euro 16,00). Un saggio che è anche un avviso agli imperterriti naviganti della Rete, i nipotini della Generazione Z, affinché ogni tanto spengano il cellulare e accendano un libro, in cui dentro trovano uno scrittore (Brera) che sta diventando un classico da studiare nei licei (il Seghetti di Verona, grazie al breriano Adalberto Scemma già lo fa). Il Professeur approva e racconta.
Per me era e rimane l’Hemingway della Bassa
«L’ho chiamato così, “Papa Lombardei”, perché il giorno che andai a trovare Brera nella sua casa di Bosisio Parini, sul lago di Pusiano, lo vidi arrivare con passo greve e con una postura che tanto somigliava a quella del “Papa” Ernest Hemingway: scrittore gigantesco l’americano, che stava in cima alla sua classifica. Brera reagì con un sorriso alla richiesta di chiamarlo così, e il suo rude placet fu: “Professeur, fa un po’ quello che vuoi”. Così ho fatto. Del resto di Hemingway possedeva il vitalismo, unito a nostalgie leopardiane. La cosa che mi fa felice è che finalmente gli scritti di Brera oggi si leggono nei licei e nelle università dove sono in sensibile aumento le tesi di laurea sulla sua poetica arcimatta. Brera voleva essere considerato scrittore. Una volta disse: “Vorrei scrivere male come il cav. Fedor Dostoevski e dire le cose che lui ha detto (e qui sono meno sicuro in confidenza)”. Dalla critica letteraria ambiva ad essere considerato alla stregua del suo amico Giovanni Arpino, con il quale nel periodo di buona andava a braccetto relegandolo sul podio come “il mio Nobel privato”. Poi ruppero dopo un’inchiesta (credo di Guido Gerosa) sul giornalismo sportivo in cui Gioânn si espresse causticamente affiancando Arpino a Mario Soldati del quale disse che “quando scrive di calcio e di sport è una pisciatina di cocker”. Arpino se la prese ovviamente e in parte si vendicò nel suo romanzo Azzurro tenebra in cui tratteggia un Brera borioso e chiuso in se stesso. Brera si beccò anche del “Gadda spiegato al popolo” da Umberto Eco. Ne nacque una polemica su cui ho fatto luce prima che Eco morisse. Lo incontrai per caso a Milano, alla libreria Hoepli, e alla domanda su quello screzio con Brera, Eco rispose sardonico: “Scherzavamo”. Invecchiando l’unico scrittore e poeta italiano che interessò veramente il Gioânn fu l’ingiustamente dimenticato Fabio Tombari».
La sua Pianariva come la mia Costaverde
«La mia affinità elettiva con Brera parte dalla radice contadina Bassaiola e la povertà comune. A casa sua, a San Zenone Po, mi disse che entrava solo il “Corriere della Sera”. A casa mia, a Cavenago d’Adda, solo la “Gazzetta dello Sport” al lunedì: la riportava mio padre dall’osteria dell’Agnelon e la copia aveva ancora l’alone del vino versato sulla pagina rosea. Lì ho cominciato a leggerlo, dopo essere stato lettore accanito di Bruno Raschi, Luigi Gianoli e Mario Fossati, ma il suo pastiche linguistico fu una rivelazione: il siculo italiano di Ver-ga mi tornava indietro con il suo italo-lombardo-Redefossiano. Scoprendo poi che San Zenone l’aveva mitizzata in Pianariva, io per stesso impulso battezzai Cavenago d’Adda la mia Costaverde. Nel tempo ho capito che Brera era il Resegone e io il Colle di San Colombano. Il pragone non mi umiliava, perché anche il colle di San Colombano ha il suo fascino che affatturò pure Ser Francesco Petarca.
Gioann la proiezione culta di mio padre
Una delle pagine più belle di Papa Lombardei è quella dell’addio di Pa’ Pino in cui Maietti scrive: «Sono brinati i nostri campi stanotte, notte dell’Epifania», chiedendo poi aiuto al caro poeta Dylan Thomas e la sua più rovente preghiera: «Non andartene padre, non andartene in quella notte senza ruggire» Si commuove Zio Athos al ricordo: «Brera a un certo punto è diventata la proiezione colta di mio padre, che aveva fatto la terza elementare, ma l’unica volta che si sono incontrati sono diventati subito amici, perché parlavano la stessa lingua. Una sera che Brera venne a Lodi per la presentazione di un libro alla fine aveva attorno tutti i maggiorenti della città. Mi si avvicina e mi fa: “Perché non hai portato tuo padre?”. Gli risposi che papà aveva pudore di stare in mezzo a tanti uomini di cultura. Gioânn allora mi guardò e mi disse: “Peccato, avrei parlato con lui e dei nostri anni che sono troppi ormai”. Si erano annusati andando a caccia, avevano condiviso pane e nebbia e brindato all’alba con la Bonarda di Rovescala. Brera era bravo a sparare, ma mio padre era un cacciatore antico e un poeta, perché quando partiva con il fucile in spalla diceva vado “a far la luna”. Leopardi che se ne intendeva come nessuno non c’era arrivato».
L’osteria e la religione del suo tempo
«Brera religioso? Nel 1963 compose una sorta di omelia in cui il suo essere rimasto padano era la metafora del granturco: “Struggermi come la pannocchia in una pozzanghera, la pannocchia si strugge miseramente ma intorno a lei infiniti esseri se ne giovano. Consumarmi così a poco a poco e non essere inutile del tutto”. Una preghiera laica. È un cristianesimo breriano quando scrive: “Troppo severo è il Dio di mia madre. Ogni sera ella chiede perdono di aver sofferto per vivere. Forse tra noi e lassù corrono amari equivoci, ma più sicuro è che provo pena per chi soffrendo, chiede ancora perdono. nascere non è colpa, né vivere di così poco e laborioso pane». Il suo Dio lo aveva trovato ai tavoli dei «poveri che invecchiano in osteria”. Non a caso, nella Bassa le osterie le chiamano “chiese”».
Mangiarebere, Bacco e tabacco
Con il mangiarebere, la Pacciada letteraria e le elucubrazioni con sua nasità Luisìn Veronelli, oltre al giornalismo sportivo e alla critica calcistica Brera ha creato anche quella enogastronomica. Ma il suo biografo ha resistito alle tentazioni di Bacco e tabacco. «Ha provato a farmi ubriacare. Quando curavamo l’Arcimatto rileggendo le bozze a casa sua, in via Cesariano a Milano, a un certo punto mi fermava: “Professeur lascia stare, vedi di finire il bicchiere che non sei ancora a metà, maledetto lodesan linfatico”. Teneva in grande considerazione i vini buoni a cominciare dal re Barbaresco di casa Gaja, ma il suo vignaiolo preferito era Carlino “Lino” Maga, il papà del Barbacarlo. Con Brera passavano le notti a degustare il suo vino e a intonare la loro canzone: “Allarmi muratori l’inverno si avvicina se gela la calcina, non si lavora più” Lino parlava come un vecchio pellerossa avvolto in una nuvola di 13 sigarette all’ora e raccontava divertito: “Mio figlio mi ha portato da un luminare che mi ha detto: dopo cinque sigarette si rischia. E io gli ho risposto: dottore, rischiamo”. La sua rivendita era piena di polvere e ricordi, sembrava la libreria di Umberto Saba a Trieste, ma tra gli scaffali spiccava l’aforisma scritto a mano dal suo poeta preferito: “Se non sai sopportare l’ingratitudine, non aiutare nessuno”, firmato Gianni Brera».
I miti e gli eroi esemplari del Folber
«Aveva amato più di tutti Peppino Meazza che aveva definito il Folber e la cosa stupì anche Indro Montanelli che gli domandò smarrito: “Cos’è il Folber? E poi hai scritto anche bradipsichico, ma che significa?”. Brera senza scomporsi rispose: “Vedete che voi toscani non conoscete l’italiano?”... Dopo il ritiro di Riva e Rivera, è come se si fosse dimesso anche lui. Gioânn aveva perso il senso del suo epico lust zu fabulierene e non era riuscito a recuperarlo. Ha fatto in tempo a conoscere Maradona che ribattezzò “il divino scorfano”, lo ammirava, anche se lo riteneva inferiore a Pelè, e tutti e due dovevano inchinarsi dinanzi a quello che per lui era “il più grande di sempre”: Alfredo Di Stefano. Quando lo intervistò gli chiese dove avesse imparato a giocare a football e Di Stefano sorridendo gli rispose: “Alla ’universitad dela calle”. Fuori da un campo di calcio la passione di Brera era per gli sconfitti dalla vita ma vincenti sul ring, i pugili. Ripensava spesso alla fine di Eugenio Castellotti, pilota lodigiano morto in pista, che era il pupillo di Enzo Ferrari. E poi conservava un posto speciale nella sua memoria per un piccolo eroe esemplare di cui mi diceva: “Sulle strade di Lodi non voglio ricordare Fanfulla, piuttosto Francesco Agello” primatista mondiale di velocità che sfrecciò fino a 682 km all’ora a bordo del suo idrovolante Macchi-Castoldi».
Lo sogno ancora Buon Natale Gioann
«Dopo tanti anni mi capita di sognarlo ancora. Una volta svegliandomi mi sono detto: toh, adesso gli telefono e parliamo un po’. Nel sogno Brera mi rimproverava, perchè dal ‘93 su quello che era stato il suo giiornale “Il Giorno”, ho tenuto una rubrica titolata “Il Salotto” e lui, nel sogno, mi rimbrotta: “Ma che salotto e salotto, tu sei come me, da osterie, quel titolo è balordo”. Me ne sono ricordato quando dopo 36 anni ho raccolto gli articoli di quella rubrica in un libro e l’ho intitolato Osteria della Dossenina. Un piccolo regalo al mio Gioânn che mi manca sempre di più. In questi giorni di Feste vorrei fargli gli auguri e ringraziarlo di tutto, a cominciare dalla descrizione più poetica che abbia mai letto sul Natale: “Mia madre passa con una bracciatella di torroni per le povere camere odorose di sonno. L’acqua è gelata nel lavamano. Sui vetri della finestra l’inverno padano ha dipinto fiori bellissimi”. Qui c’è tutto il mio Gioânn che non ha lasciaato eredi, ma ogni suo scritto è un testamento spirituale».