Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 22 Venerdì calendario

Quel dolce sentire nelle opere di Natale


Con allegria, un soprano canta: «Si apra al riso ogni labbro». È la voce dell’Angelo a dare subito, al primo verso, l’annuncio. Alla sua si aggiungeranno soltanto altre due voci, quelle di due pastori, e il suono di due violini: basteranno per esprimere la gioia di quanto è accaduto in quella “notte felice”. È il 1677 quando Alessandro Stradella compone, a Roma, questa cantata natalizia. L’intenzione è esplicita, nell’economia dei mezzi: creare una dimensione d’ascolto intima, affettuosa, lontana dai fasti e dai virtuosismi della vocalità barocca, in modo che ciascuno possa condividere lo stupore per il prodigio avvenuto, grazie anche al ricorso a una lingua poco letteraria, subito comunicativa. Che ogni labbro, che ogni bocca sorrida.
Quale repertorio scegliere dal ricchissimo lascito che i compositori hanno dedicato alle celebrazioni natalizie, quale musica riascoltare, quale scoprire? All’alba del Novecento, per il Natale del 1899, Lorenzo Perosi compone uno dei suoi grandi oratori, Il Natale del Redentore, su testi tratti dalle narrazioni bibliche ed evangeliche di Luca. Orchestra, coro, quattro solisti vocali nel tentativo – che fu il principale merito storico e artistico di Perosi – di sottrarre il canto e la musica di carattere sacro dall’abbraccio stritolante del melodramma e dei suoi codici, restituendo alla vocalità una dimensione più congrua al racconto: non un ritorno al canto gregoriano o alla polifonia del periodo rinascimentale, i due pilatri della musica sacra, ma una musica nuova, di spessore sinfonico ed aderente alla sacralità del testo. Un tentativo coraggioso, che costituisce ancora un crocevia critico per gli autori ed esecutori di una musica che voglia chiamarsi sacra e liturgica, non appiattita, snaturandosi, alle mode commerciali e pop.
Due appaiono, nel Novecento, i brani che con maggiore intensità esprimono il senso di stupore per quanto accadde quella notte. Nel 1942, durante la seconda guerra mondiale e mentre il suo paese era sottoposto agli attacchi aerei tedeschi, il compositore inglese Benjmanin Britten scrive, per voci bianche di bambini e per un’arpa, Ceremony of Carols. La levità e la gioia di questa semplice cerimonia di canti natalizi vengono affidate ai suoni dell’arpa che gioca spesso lungo il confine che divide e unisce il suono dal silenzio, vissuto come attesa di un accadimento luminoso. Per le voci, Britten sceglie un andamento innodico e si rifà ai modi musicali dell’antica Grecia, nell’intenzione di bloccare il corso del tempo storico e di lasciarci immaginare un suono che possa evocare quello delle voci nell’anno zero della nostra civiltà. Nel 1951, su invito della televisione statunitense che intende celebrare il Natale con una trasmissione originale, Gian Carlo Menotti scrive Amahl and the Night Visitors. L’ispirazione gli viene da un quadro di Hyeronimus Bosch, L’adorazione dei magi, visto al Metropolitan Museum di New York. I visitatori notturni sono loro, i tre Re Magi in cammino verso quella capanna di pastori. Amahl è un ragazzino di dodici anni, e zoppica: se ne sta lì fuori, solo nella notte, e suona una melodia pastorale. Sua madre – sono soltanto loro due in famiglia, non c’è il padre – non gli crede quando Amahl racconta di aver visto nel cielo una stella diversa da tutte le atre; ma anche lei dovrà ammettere che quella è una misteriosa notte di gioia quando vede arrivare i re Magi. Alternando parola e canto, privilegiando un pubblico disposto ad amare le favole, e dunque in primo luogo i bambini, Menotti sceglie anche lui la strada dell’immediatezza, è generoso di melodie orecchiabili e crea un lieto fine nel lieto fine: Amahl, che subito ha condiviso il mistero di quella notte, non avrà più bisogno della sua stampella e desidera offrirla a qualcuno cui potrà ora servire. Il ragazzino e sua madre: in quella capanna manca la figura maschile. E questa assenza, sia pure mai menzionata dal testo né sottolineata dalla musica, rende ancora più delicato il rapporto tra la donna e suo figlio, ancora più solo e desideroso di felicità quel bambino. La favola di Menotti (da cui nel 1996 verrà tratto un film) ebbe un tale successo da venire teletrasmessa ancora per molti anni, anche dopo aver iniziato ad essere rappresentata nei teatri, nei college, nelle chiese. Dimensioni del tutto diverse propongono i due riconosciuti capolavori barocchi dedicati al periodo natalizio: l’Oratorio di Natale di Johann Sebastian Bach e il Messiah di Georg Friedrich Handel. Il primo è cantato in tedesco, il secondo in inglese, le lingue parlate dal pubblico al quale i due compositori si rivolgevano. Nessun dubbio che, almeno per quanto riguarda l’originalità dell’idea, il primato vada a Bach, che concepisce un prodotto seriale. Sei cantate da eseguirsi in altrettanti giorni compresi tra il 25 dicembre 1734 e il 6 gennaio, l’Epifania, del 1735, in due chiese di Lipsia, la città dove prestava servizio come Kantor, musicista salariato alle dipendenze della città. Un festival natalizio, un appuntamento breve – ogni cantata dura circa 30 minuti – che ad ogni scadenza rimanda alla successiva. Un’opera dalla concezione gigantesca: dall’inizio – «Esultate, giubilate, celebrate i giorni» – alla fine, all’ultimo corale, «in Dio ha trovato il suo posto il genere umano». Un narratore, l’orchestra, il coro e le voci dei solisti che spesso uscivano dalla massa del coro, dilettanti tra i dilettanti, nella semplicità di un modo meraviglioso di abitare la musica e di condividere il senso del sacro.