il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2023
Il Natale al cinema salvato da pretini e Dèi pasticcioni
Adda venì Peppone? Bandiera rossa la trionferà, per ora spopola don Camillo, o meglio la sua progenie sul grande schermo. A ottant’anni scarsi dall’epifania letteraria di Giovannino Guareschi, a settanta dal primo Don Camillo per immagini e suoni, con l’eponimo Fernandel e il Peppone Gino Cervi diretti da Julien Duvivier (1952), l’abito torna a fare il monaco, con denominazione parrocchiale e domicilio cinematografico: se le chiese son vuote di fedeli, le sale traboccano di preti. Saranno prosaicamente vasi comunicanti, sarà eruditamente Renè Girard, che “la tendenza a cancellare il sacro, a eliminarlo interamente, prepara il ritorno surrettizio del sacro, in forma non più trascendente bensì immanente”, certo è che potremo santificare queste Feste in sala: film, ancorché opere di bene. Ci eravamo preparati al proselitismo in parole, primi piani e missioni, ché l’offerta degli ultimi mesi era stata doviziosa: Il grande giorno di Aldo, Giovanni e Giacomo, L’esorcista del papa, L’estate più bella, e – allargando al papalino – Rapito di Marco Bellocchio, nonché l’islandese Godland, abbiamo scoperto gli altarini e, i cinefili più osservanti, fatto la comunione.
Omnia munda mundis, la religione ha preso a staccare biglietti, ritrovando la messa in latino col prete (un ottimo Nicola Civinini) di C’è ancora domani, il campione d’incassi di Paola Cortellesi. Piazze piene, urne parimenti, ma in quel neo-Neorealismo rosa in bianco e nero pure le chiese hanno richiamato popolo, suonando la carica alla – eh eh – messe sotto l’albero. Cortellesi, assistita dagli sceneggiatori Andreotti e Calenda, ha fatto della chiesa collettore di suspense, incrocio di destini e incubatore di libertà: un utilizzo strumentale? Diciamo piuttosto ad alta funzionalità, e Testaccio val bene una messa. La tendenza è conclamata: il “crescete e moltiplicatevi” della Genesi è stato pericolosamente se non proditoriamente fatto proprio dai sacerdoti, che al Natale laicizzato, al consumismo delle Feste ultime scorse rispondono occupando gli schermi, dove istruiscono convergenze fraterne e officiano funerali tanto in 50 km all’ora di Fabio De Luigi quanto in Come può uno scoglio con Pio e Amedeo. Come si potrebbe chiosare, Santocielo? Esclamazione fatta titolo, con Ficarra e Picone che vanno oltre, rasentando – a detta dei beghini intransigenti – la blasfemia: annoverati più e più preti nella loro filmografia, stavolta chiamano in causa un nuovo Messia, spogliano Dio della teocrazia e declinano al maschile l’Immacolata Concezione. Punto d’arrivo o punto di caduta, a ciascuno il suo credo. Qualcosa è cambiato: Diario di un curato di campagna ingiallisce di Grazia, le figurae Christi rivendicano altre visioni, nondimeno l’exemplum di Paolo Paolini, da La ricotta di esattamente sessant’anni fa a Il Vangelo secondo Matteo del 1964, pare informare il qui e ora. Monsignor Davide Milani, esercente a Lecco e presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, distingue nel novero ecclesiastico tra “le figure d’ambiente, in Italia ineludibili al pari di calciatori e veline, e quelle che sono riferimento di una comunità, come avviene nel pur discutibile Santocielo”.
Milani contempla i tanti sacerdoti del corpus di Carlo Verdone, e incrocia schermo e realtà: “Oggi ci sono più preti al cinema che futuri preti nei seminari, ma il sintomo può essere d’indirizzo: non servono funzionari del sacro, bensì protagonisti della fede. A partire dalla beneficenza, tristemente ridotta ad affari di influencer”.