la Repubblica, 22 dicembre 2023
L’attacco del 7 ottobre raccotato da Spielberg
La decisione di Steven Spielberg di raccogliere tutto il materiale disponibile per realizzare un documentario che racconti le atrocità commesse da Hamas lo scorso 7 ottobre sigilla un rapporto imprescindibile del cineasta con il suo popolo, sia sul piano esistenziale che su quello artistico. La dichiarazione fatta in occasione dell’annuncio ha un tono pieno di dolore e sconcerto («non avrei mai immaginato di assistere nella mia vita a barbarie così indicibili nei confronti degli ebrei») e la decisione di agire attraverso la Shoah Foundation, che ha fondato nel 1994, evidenzia come Spielberg equipari l’orrore di quanto avvenuto il 7 ottobre con l’abominio dell’Olocausto. Quella data, definita in un primo momento come l’undici settembre israeliano, è il sintomo di una tragedia persino più grande, che ha avuto numerose declinazioni precedenti all’Olocausto, come i pogrom: «l’antisemitismo non è mai andato via, era solo meno visibile e oggi è rivenuto alla luce con arroganza», ha aggiunto, parlando di una «situazione simile alla Germania degli anni Trenta». Lo sgomento con cui ha parlato denota lo stesso approccio umanista dei suoi film, ma la sostanza del grido d’allarme non differisce molto da quanto scriveva Bertold Brecht a commento delle immagini dei gerarchi nazisti: «il ventre da cui sono strisciati è ancora fecondo». Mai come adesso è necessario «combattere ogni forma di antisemitismo e di odio», ha concluso Spielberg, e il nuovo progetto, che prevede la testimonianza di 130 persone sopravvissute al massacro, sarà visibile presso il Visual History Archive della USC Shoah Foundation’s Countering Antisemitism Through Testimony Collection, il centro della University of Southern California che ha come missione documentare l’antisemitismo successivo all’Olocausto. Un ruolo fondamentale lo rivestirà Shaylee Atary Winner, riuscita a scampare al massacro insieme alla figlia di quattro settimane grazie al sacrificio del marito Yahab Winner. La donna racconta che trovarsi a essere «inseguita come una preda insieme alla sua bambina» le ha fatto rivivere l’esperienza dei familiari massacrati nell’Olocausto. Non è certo un caso che il rapporto tra predatori e carnefici sia centrale nel cinema di Spielberg, che ha dato vita alla Shoah Foundation sull’onda del riscontro internazionale di Schindler’s List per preservare la memoria della tragedia dell’Olocausto: nei soli primi cinque anni di vita, la fondazione ha realizzato 52.000 interviste, coinvolgendo anche sopravvissuti ai mostruosi esperimenti di eugenetica, oltre a chi è stato perseguitato perché omosessuale, Rom, Sinti o Testimoni di Geova. Schindler’s list ha rappresentato nella vita di Spielberg uno spartiacque, ma solo chi sino ad allora ne ha giudicato superficialmente il cinema come escapista è rimasto stupito dalla crescente dedizione a questo tema. La sua testimonianza non si limita alle attività della Shoah Foundation e ai documentari: è in cantiere un adattamento di Apeirogon, il libro di Colum McCann che racconta il sodalizio tra un israeliano e un palestinese che hanno entrambi perso una figlia nel conflitto. Il regista è rimasto commosso dalla dimensione di speranza presente nel magnifico libro dello scrittore irlandese e ha in mente di completare una trilogia sul popolo ebraico, cominciata con Schindler’s List e continuata con Munich, la pellicola sulla strage degli atleti israeliani durante le olimpiadi di Monaco del 1972 e la successiva rappresaglia a opera dei servizi segreti. Per lungo tempo ha pensato di dirigere anche un film sul caso Mortara, ma poi ha rinunciato non sentendosi idoneo a raccontare con accuratezza l’Italia dell’Ottocento. Mentre Marco Bellocchio ha affrontato la vicenda in Rapito, Spielberg a preferito realizzare I Fabelmans, nel quale ha raccontato in chiave autobiografica la scoperta dell’antisemitismo. Il termine “indicibile” con cui ha descritto le atrocità del 7 ottobre, è rivelatorio per interpretare il modo in cui ha raffigurato il male nel suo cinema: un esempio lampante è il personaggio realmente esistito di Amon Göth, che in Schindler’s List si diverte a sparare a caso verso un gruppo di ebrei per dimostrare il proprio potere assoluto. Quando il gerarca nazista interpretato da Ralph Fiennes lancia un urlo di fronte a un rogo di cadaveri, assistiamo, in un crescendo di orrore e follia, alla vittoria delle tenebre. Spielberg conosce l’insegnamento teologico per cui il male è un mistero che non si può spiegare ma solo raccontare, ed è illuminante a questo riguardo quanto mette in scena in Duel, dove un camionista vuole uccidere un automobilista senza alcun motivo: Spielberg non mostra mai le fattezze di chi perpetra questo abominio, ma solo quelle della vittima, ritratto in tutta la sua umanità e il suo spirito di sopravvivenza rispetto a una manifestazione del male allo stato puro. È un approccio registico ripetuto costantemente: nello Squalo il predatore attacca implacabile, motivato unicamente da furia distruttrice, e anche in questa occasione, come in Duel e in Schindler’s List, sono le vittime ad avere la dignità della resistenza e di un’esistenza delineata. Si tratta dello stesso sguardo con cui è impostato questo nuovo progetto: i filmati in cui sono immortalati i bambini sterminati, e i letti pieni di sangue, sono la rappresentazione per immagini di un indicibile urlo di dolore, con il quale Spielberg celebra il martirio di vittime innocenti di fronte alla disumanità di carnefici che impersonano il male assoluto, e come tali non possono avere né un volto né un’anima.