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 2023  dicembre 21 Giovedì calendario

Biografia di Denis Verdini

Chiedono un pezzo su Denis Verdini. Il progetto è di impaginarlo tipo «personaggio parlante», un po’ ritratto e un po’ colloquio (piano, ragazzi: guardate che è un detenuto).
A quelli che stanno in via Solferino è venuta un’idea davvero poco natalizia, perché questa è una storia senza lieto fine, senza buoni e anzi con un cattivo che, nell’immaginario collettivo (la fisicità non l’aiuta), è di quelli seri: però bisogna ammettere che Verdini sta dentro un racconto emblematico, una grandiosa parabola di vita e di politica, vecchia e pure nuova (è il papà di Francesca, la fidanzata di Matteo Salvini, quindi è il suo simil suocero), con tanto berlusconismo vissuto e goduto, a lungo consigliere fidato del Cavaliere e comandante in capo delle sue truppe parlamentari, contemporaneamente anche faccendiere e imprenditore, tra intrighi che i magistrati chiamarono P3 e molte scabrose amicizie (compresa quella fraterna con Marcello Dell’Utri), perciò protagonista assoluto di stagioni piene di grazia e di potere che non sono eterne per nessuno, finiscono quasi per tutti e infatti sono finite anche per lui, prima a colpi d’inchieste e dopo con le sentenze, dure e definitive, ben due, mica una, e sempre per bancarotta (6 anni e 6 mesi per il crac del Credito Cooperativo fiorentino, di cui è stato per un ventennio presidente, e altri 5 anni e mezzo per le macerie in cui ha lasciato la Società Toscana di Edizioni-Ste).
L’ex senatore avrà sempre lo stesso numero di cellulare? (forse sì: ma – per adesso – squilla a vuoto).
Chi rovista nelle esistenze delle persone è abituato a (quasi) tutto: certo è un’esperienza nuova telefonare a un recluso. Se risponde, la curiosità primaria è capire come abbia accolto l’ultima umiliazione (i titoli, su alcuni quotidiani, dicevano più o meno così: «Un tutore gestirà il suo conto corrente»).
Intanto: spedirgli un WhatsApp. E aspettare. Non scappa.

Avendo 70 anni suonati, Verdini è potuto passare dal carcere a una cella magnifica che nemmeno è la sua leggendaria regia fiorentina di Pian de’ Giullari, ma un villone accanto, tra glicini sontuosi, altrettanto confortevole. Lui inchiodato lì – può uscire, come previsto dal regolamento penitenziario, dalle 11 alle 15, ma senza lasciare la città, senza incontrare pregiudicati – e noi cronisti inchiodati a certi ricordi nitidi. Sembra ieri. Dove c’è lui che arriva al Senato, nel corridoio dei Busti, con la criniera bianca e il passo felpato da grosso felino che gli viene grazie ai suoi mocassini di camoscio blu, scarpette simili a quelle di Flavio Briatore, ma senza nappine e senza iniziali: che invece sono sulla camicia di cotone giapponese tagliata su misura, i polsini stretti da gemelli d’oro, e d’oro massiccio – un padellone con le lancette – è il suo orologio. Si volta lo storico Miguel Gotor, all’epoca senatore dem: «È antropologicamente diverso». Però sa fare il suo lavoro. Ai berluscones ripete: «Chi deve fare la pipì, la faccia subito. Dall’Aula uscirete solo quando ve lo dirò io».
Verdini è stato forse l’uomo più potente dell’ultima stagione di luci accese a Palazzo Grazioli. Con lui c’erano Daniela Santanchè e Daniele Capezzone, detestato da Dudù, il barboncino di Francesca Pascale, che gli ringhiava saltando tra i divani. Lei, in cucina, nel ruolo dell’aspirante moglie del capo, che controllava il prezzo dei fagiolini («15 euro al chilo? Ma siete pazzi?») e gli altri in salotto, tra i putti e le trame. Poi un pomeriggio Renato Brunetta osa contraddire Verdini e si ritrova preso alla gola, e appeso – letteralmente – al muro.

Che anni. Che storie. Un’altra volta Denis è costretto a salire sulla sua Mercedes (sempre macchine fiammanti come astronavi) per correre dietro a Nicola Cosentino, detto «Nick o’ americano», deputato casertano vicino al clan dei Casalesi. Berlusconi non lo vuole ricandidare e quello allora ha afferrato il dossier con le liste elettorali e scappa, si butta sull’autostrada per Napoli, e Denis dietro, nel buio, a duecento all’ora, insieme a Nitto Palma. «Nick, brutto idiota: ti ordino di fermarti» – perché Denis risolveva anche questo tipi di problemi.

Personaggione. Cresciuto tra i vicoli di Fivizzano – la Lunigiana dei Malaspina e poi del mite Sandro Bondi, poeta – trasferitosi in seguito a Campi Bisenzio, il padre, rigido ufficiale degli alpini, lo cresce con regole militari: quando il ragazzo è troppo vivace, lo chiude in biblioteca. Così impara a memoria interi canti della Divina Commedia, s’appassiona a Montale, ma all’Università di Firenze, dove si laurea in Scienze politiche, incontra due docenti – Giovanni Spadolini e Giovanni Sartori – che gli scatenano la passione per la politica. Ben presto, s’accende però anche quella per gli affari. Di ogni tipo. Dal commercio internazionale di carni all’eolico, passando per le banche, l’editoria. Il Cavaliere ne apprezza il cinismo feroce, l’efferata spregiudicatezza. Denis contraccambia: «Impossibile resistere al suo fascino. Ma io, sia chiaro, m’innamoro delle donne. Non vorrei scriveste che oltre ad essere massone, sono pure gay». È lui che presenta Matteo Renzi ad Arcore. Dicendo: «Non è dei nostri, ma è molto bravo. E poi non ho mai visto un comunista più anticomunista». Il cosiddetto Patto del Nazareno sarà il capolavoro di Denis: con Renzi, segretario del Pd, seduto sotto la foto del Che, e il Cavaliere sotto quella di Bob Kennedy.
I neuroni sfrigolano: abbiamo visto davvero di tutto, in questi tragici anni. Ma squilla il cellulare. È lui.

«Buonasera: l’ho richiamata per pura cortesia... Però mi è vietato parlare con i giornalisti. La prego di non mettermi nei guai. Anche se, ovviamente, possono togliermi la libertà, ma non le idee. E io, attualmente, con tutto il tempo che ho a disposizione, sono pure la persona più informata d’Italia».
Allora meglio restare ai retroscena. In cui lui, con la scusa di venire a Roma dal dentista, e non potendo più sedersi nel suo ufficio all’aperto (il bar Ciampini), si chiude nell’ufficio del figlio Tommaso (imprenditore nella ristorazione) e telefona, suggerisce, cerca di incidere ancora. Ma pure osserva: la Meloni, ad esempio, pensa che debba essere valutata sui fatti, e per adesso sono pochi. Riflette sul berlusconismo: stagione piena di speranze e, certo, di fallimenti. E immagina un libro per raccontare la sua vicenda giudiziaria. Che attraversa con l’obiettivo d’essere affidato ai «servizi sociali», non del fine pena. Quanto al genero Salvini: gli ha consigliato di non travestirsi più da guardia forestale, di smetterla con i selfie mentre mangia pane e Nutella. Gli ha detto: sei un ministro, datti un contegno da ministro (questi suoceri sempre un po’ brontoloni, no?).