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 2023  dicembre 21 Giovedì calendario

Intervista a Paolo Bonacelli

Quando ancora non esistevano i tormentoni da Internet, lui a suo modo lo era già. Lui è il Leonardo da Vinci di Non ci resta che piangere; lui è l’avvocato siciliano che in Johnny Stecchino spiega a Roberto Benigni qual è il vero problema di Palermo, “un problema intollerabile: il traffico!”.
Lui è Paolo Bonacelli, romano (“molti pensano sia siciliano”), attore di teatro da Pinter e dintorni; attore di cinema da contesti internazionali (“Alan Parker è stato strepitoso”). E uno degli ultimi testimoni dell’epoca della gioia, dell’impegno, del viaggio perenne, del teatro come metro di giudizio popolare. “Però solo il cinema ti rende eterno, come avvenuto proprio grazie a Johnny Stecchino…”.
Capolavoro.
C’era di mezzo Vincenzo Cerami e lui scriveva bene, conosceva i tempi giusti e come raggiungere le corde dello spettatore; ancora mi fermano i bambini per ripetermi la scena.
Eppure ha interpretato centinaia di ruoli.
Più in teatro: ogni anno un testo nuovo, quasi sempre i classici, una miniera assoluta.
Prima tournée?
Con Vittorio Gassman appena uscito dall’Accademia; a quel tempo Gassman era una della massime espressioni del teatro e per il provino mi chiese di urlare in quattro modi.
Di suo ha la voce bassa.
Eppure mi prese e non gli ho mai chiesto il perché; subito dopo ha preferito tentare l’esperienza cinematografica.
Come lei?
Ho accettato per un motivo: il grande schermo rimane, è la testimonianza del tuo lavoro, dura negli anni, il teatro no; (pausa) comunque c’è differenza tra teatro e cinema, ma se un attore è bravo lo è a prescindere.
A chi pensa?
Proprio a Gassman.
E poi, a chi?
A quel gran paraculo di Gian Maria Volonté, anche se il palco lo ha calcato poco; (sorride) con Volonté ho girato alcune scene nel film di Montaldo (Giordano Bruno) e oggettivamente era bravissimo: pochi fronzoli, veniva sul set ed era già nella parte.
Tra i registi chi l’hanno colpita?
Con Alan Parker ho girato quattro settimane a Malta e in mezzo a un super cast (Fuga di mezzanotte); poi Francesco Rosi, attentissimo agli attori, e soprattutto ne capiva di macchina da presa e di recitazione; siamo rimasti amici pure dopo il lavoro.
Non è comune.
Di solito sui set è semplice promettersi la qualunque, ma dopo l’ultimo ciak evapora ogni emozione.
Con Pasolini è in Salò.
Qui c’è un rimpianto umano e professionale: secondo alcuni, se non fosse stato ucciso, sarei diventato il suo attore feticcio.
Pure lei lo pensa?
Tra noi era nato un bel rapporto, mi chiedeva consigli sul set, cercava complicità per delle soluzioni recitative. Si fidava.
E Benigni?
Non lo sento mai.
Avete girato tre film insieme.
(Sorride, sornione) Evidentemente gli andavo bene.
Quarant’anni da Non ci resta che piangere
Lì ho scoperto un Massimo Troisi incredibile: persona gentilissima, disponibile, seria; (pausa) per lavorare, uno dei miei parametri, è sempre stato il divertimento, e sul quel set mi sono divertito tantissimo; uno degli sceneggiatori era Giuseppe Bertolucci.
E…
Giuseppe ha ottenuto meno di quello che meritava.
Rispetto a quale lavoro si dà una pacca sulla spalla?
Per aver contribuito a portare Pinter in Italia; prima di me lo aveva affrontato solo Carlo Cecchi; (pausa, sorride) una sera venne a teatro Giovanni Raboni e scrisse: ‘È il più bel Pinter visto in Italia’. Piacque pure a Ronconi.
Cecchi l’avrà presa bene.
(Secco) Cacchi suoi; (cambia tono) ci crede un po’ troppo.
Con Ronconi non ha recitato.
Ha provato a coinvolgermi, ma non ho accettato.
Perché?
Gli interessava solo se stesso e poi lo spettacolo.
È uno dei pochi ad aver detto di “no”.
Alcuni si sono stupiti, ma la stessa risposta l’ho rifilata a Paolo Grassi.
Ha mai provato a diventare regista?
No, mi è sempre troppo piaciuto recitare.
Si è divertito…
Tanto. Veramente tanto. In particolare a teatro.
Cos’è per lei il teatro?
È il momento prima del sipario, quando sale la tensione, gli interrogativi, senti il brusio, il respiro generale; poi si apre e inizia il dialogo con il pubblico, un’amicizia infinita. E si resta un po’ bambini.
Per D’Alatri il teatro è una droga.
Non solo metaforicamente.
Cioè?
Qualcuno ci dava sotto, soprattutto di cocaina; (sorride) ricordo una festa a Milano dove se non tiravi apparivi come uno stronzo.
Lei chi è?
(Sospiro, lungo, molto) Non saprei definirmi; uno che crede nel suo lavoro e negli altri.