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 2023  dicembre 20 Mercoledì calendario

Intervista a Riccardo Chailly

Successe a gennaio. Era il 25 gennaio 1982 quando Claudio Abbado tenne a battesimo la Filarmonica della Scala con la Terza di Mahler. Un’orchestra nell’orchestra, una nuova formazione votata al repertorio sinfonico dentro il tempio della lirica. Poteva sembrare un paradosso, ma non per il grande direttore, che quei due percorsi stimava necessari e complementari. Idea lanciata da Abbado qualche mese prima, durante la leggendaria tournée scaligera in Giappone, plasmata sul modello dei Wiener, che prevedeva autonomia artistica e organizzativa.
Successe a gennaio. Anno 2014, Claudio Abbado se ne andò il 20 di quel mese nella sua casa di Bologna. «Sono passati dieci anni e la sua assenza si fa sempre più forte» confessa Riccardo Chailly, che il prossimo 15 gennaio aprirà la stagione della Filarmonica con un concerto che a Claudio rende idealmente omaggio. Programma francese: Maurice Ravel (Une barque sur l’océan e Daphnis et Cloé) e Olivier Messiaen (Et exspecto resurrectionem mortuorum). E due settimane dopo, 29 gennaio, sempre sul podio della Filarmonica arriverà un altro grande amico di Abbado, Daniel Barenboim, con la VI e la VII di Beethoven.
Ma prima arrivano Ravel e Messiaen, due autori cari a Claudio. Chailly, cosa le manca di più di lui?
«La sua amicizia anzitutto – risponde il maestro, dal 2015 direttore musicale della Scala e direttore principale della Filarmonica —. Mi manca il suo camerino sempre aperto, un segnale importante da un punto di vista della nostra collaborazione. Ricordo con commozione l’ultimo congedo nella Basilica di Santo Stefano a Bologna. Quando ci penso non posso far a meno di emozionarmi».
Il pensiero corre lontano, al ’73, quando arrivò alla Scala come assistente di Abbado. Lei 20 anni, lui 40. Com’era il vostro rapporto?
«In quegli anni ero studente in Conservatorio, ricordo ancora la sorpresa della sua chiamata. Con grande spontaneità mi disse di aver pensato a me come assistente per i concerti sinfonici. Da lì è nato tutto, anche un rapporto più ravvicinato nelle nostre relazioni quotidiane. Di quegli anni, ricordo quanto Claudio sia stato per me artista di riferimento, dal punto di vista interpretativo e anche come identità di un percorso all’interno del grande repertorio sinfonico e lirico. Ne è nata una spontanea amicizia. C’era la sua grande passione nel far musica e la sua disponibilità al dialogo, c’era un rapporto aperto in cui ciascuno esprimeva il proprio pensiero».
Quasi dieci anni dopo, 1982, lei era sul podio della Scala con un memorabile Barbiere e Abbado faceva nascere la Filarmonica
«Me ne parlò, mi aveva incaricato di un progetto nuovo per un’orchestra sinfonica, purtroppo non realizzato, dedicato alla musica da camera di Mozart. Voleva sviluppare in orchestra la possibilità di conoscere la musica da camera e mettere in risalto le singole sezioni. In orchestra c’era grande partecipazione, ricordo le conversazioni con Glauco Cambursano, grande flautista, uno degli artefici della Filarmonica. Si ascoltava l’opinione dei musicisti anche nella scelta del repertorio».
Come la sinfonica arricchisce la lirica?
«Un esempio è il nostro Don Carlo inaugurale del 7 dicembre. Che forse non sarebbe stato tale se non ci fosse stato, prima di me e con me in questi anni, un percorso parallelo tra repertorio sinfonico e lirico. L’esaltazione della scrittura sinfonica all’interno di un’opera lirica assume una identità prioritaria».
Quanto ha contato l’eredità di Abbado quando ha assunto la direzione della Filarmonica?
«Il suo peso mi sembra evidente, avendo completato un’integrale delle sinfonie di Mahler, così come quella di Beethoven. E altrettanto è avvenuto sul fronte lirico con Lucia di Lammermoor, Boris Godunov, Macbeth e Don Carlo. Sono tutti segnali di un’eredità fondamentale che ho ritenuto di voler seguire».
E l’orchestra? Come è cambiata?
«Ho vissuto gli anni di un’orchestra in costante crescita, sia dal punto di vista della qualità sia della conoscenza del grande repertorio. Il neo progetto sulle sinfonie di Prokof’ev è una testimonianza della evoluzione della Filarmonica, l’identità da cui è nata. In quegli anni Prokof’ev era un autore molto presente in orchestra».
Quali direzioni di Abbado sono state per lei un punto di riferimento?
«Moltissime. Non posso però non citarne due dei primi anni ‘80 con la Filarmonica: la Suite dall’Uccello di Fuoco di Stravinskij e il Poema dell’Estasi di Skrjabin».
Il concerto del 15 gennaio ha al centro un brano di Messiaen molto speciale
«Uno dei capolavori del ‘900, che non ho ancora eseguito con la Filarmonica. Et exspecto resurrectionem mortuorum, nato per commemorare le vittime delle due guerre mondiali, assume oggi un significato particolare. Un brano di altissimo valore spirituale. Il finale, dove si celebra la trascendenza della morte, è un atto di speranza».