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 2023  dicembre 20 Mercoledì calendario

La disputa sulle ceneri di Vanzetti

«Riposino in pace». Novantasei anni dopo la morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, l’ultimo erede dell’anarchico piemontese chiede alla Boston Public Library le ceneri «americane» dello zio. Ciò che resta dei due emigrati italiani condannati senza prove per una rapina mai commessa, un’ingiustizia che sollevò un’ondata mai vista di indignazione planetaria, è infatti ancora parzialmente racchiuso in un’urna del Massachusetts. Direte: possibile? Per capire le ragioni di questo incredibile pasticcio politico, burocratico e diplomatico bisogna partire dall’inizio.
È il 15 aprile 1920. Cinque banditi assaltano una fabbrica di scarpe a South Braintree, a sud di Boston, rapinano 15.776 dollari di buste paga, ammazzano il portavalori Frederick Parmenter e la guardia Alessandro Berardelli e scappano. Indizi? Zero. Ma il capo della polizia della vicina Bridgewater si convince che c’entrino gli immigrati italiani. Intuizione forse giusta, visto il coinvolgimento successivo dell’allora famigerata «Joe Morelli gang» di cui faceva parte il portoricano Celestino Madeiros, l’unico reo confesso dell’assalto, ma viziata da callosi pregiudizi antitaliani legati alla paura della Mano Nera mafiosa ma più ancora del ribollio anarchico. Uno in fila all’altro, vent’anni prima, gli emigrati italiani anarchici Sante Caserio, Michele Angiolillo, Gaetano Bresci e Luigi Lucheni avevano assassinato il presidente francese Marie François Sadi Carnot, il premier spagnolo Antonio Canovas, il re d’Italia Umberto I, l’imperatrice d’Austria Elisabetta d’Asburgo... Non bastasse, nel 1919 misteriosi mittenti avevano spedito una trentina di pacchi bomba a vari politici e personalità degli States, tra cui il ministro della giustizia Alexander Mitchell Palmer. Pacchi «italiani»? Mah...
Fatto sta che nella rabbiosa caccia agli anarchici finiscono Nicola Sacco, un foggiano di Torremaggiore sposato e padre d’un bambino, e Bartolomeo Vanzetti, un cuneese di Villafalletto, arrestati insieme il 5 maggio 1920 con una pistola a testa, cosa allora non così infrequente, e il volantino di un comizio. Sulle prime li interrogano su una rapina fatta alla vigilia del Natale 2019 a Bridgewater: Sacco dimostra che era al lavoro, Vanzetti ha testimoni pronti a giurare che era a Plymouth col suo carretto di pesce. Macché, il giudice Webster Thayer non gli crede: mai fidarsi degli italiani. Lo condanna e lo incrimina con Sacco pure per la rapina delle buste paga. Anche stavolta Vanzetti ha testimoni che assicurano come quel giorno fosse a Plymouth e Sacco spiega che, essendo morta la madre, era addirittura al consolato italiano di Boston per fare i documenti e rientrare in Italia. Macché...
Riassumere tutte le storture del processo, dai testimoni intimoriti alle perizie balistiche sfalsate, sarebbe troppo lungo. Furono così tante che il giurista Felix Frankfurter, docente ad Harvard e futuro giudice della Corte Suprema, si spinse a scrivere che il materiale d’accusa era tutto «un guazzabuglio di citazioni errate, travisamenti, soppressioni e mutilazioni». A farla corta, fu un complotto giudiziario costruito con un solo obiettivo: incastrare e mandare a morte a tutti i costi i due anarchici. A dispetto anche della confessione in carcere, che scagionava «Nick & Bart», del portoricano della «Morelli’s gang». Bisognava dare una lezione agli italiani. Punto.
Un’operazione così sfacciata che perfino Mussolini, scrive lo storico Luigi Botta, autore di vari libri sul tema a partire da Sacco e Vanzetti: giustiziata la verità (Gribaudo editore, 1978, prefazione di Pietro Nenni), fu costretto più volte a intervenire, lui che gli anarchici li mandava al confino, chiedendo alle nostre autorità negli States (contro i «consigli» del ministro Giuseppe Volpi di Misurata «per non urtare la sensibilità americana») di vigilare perché non fossero creati dei martiri.
Il Duce stesso, del resto, non poteva ignorare quanto stava accadendo. In difesa di Sacco e Vanzetti, oltre ai circoli anarchici allora assai diffusi (nella sola Paterson, New Jersey, erano nate varie testate tipo «Agitiamoci per il Socialismo Anarchico», «Agitatevi…», «L’Agitatore…», «L’Agitazione...»), si erano sollevate via via una serie di associazioni operaie e non solo. E i dubbi sulla colpevolezza degli italiani, perfino a dispetto dell’orrore per un attentato dinamitardo a Wall Street con 38 morti e trecento feriti compiuto il 16 settembre 1920 e attribuito decenni dopo (ancora senza prove) al romagnolo Mario Buda come rappresaglia per il rinvio a giudizio dei due immigrati, si erano allargati a tutta l’America e all’Europa. Al punto di spingere nel 1926 un giornale francese a raccogliere due milioni di firme per una revisione del processo e coinvolgere figure come Albert Einstein, George Bernard Shaw, John Dos Passos, Dorothy Parker, Bertrand Russell, Marie Curie, Anatole France… Tutto inutile: il 23 agosto 1927, dopo anni di rinvii, ricorsi, appelli alla grazia (non mancò una perorazione a Pio XI contro i «farisei del Massachusetts»), Sacco e Vanzetti finirono sulla sedia elettrica. «Un errore giudiziario tra i più tragici», scrisse il «New York Word». Ufficialmente ammesso 50 anni dopo, dallo stesso governatore del Massachusetts Michael Dukakis.
Dead!, titolò a tutta pagina il «Daily News»: «Morti!». Non aggiunse altro, tutta l’America sapeva di loro. E i funerali diedero la misura della commozione popolare con la partecipazione, a dispetto dei divieti, d’una folla immensa. Un evento epocale, che aiutò a cambiare la percezione degli immigrati italiani agli occhi degli americani. Al punto di influire, nella scia di tanta emozione, sull’elezione di Angelo Rossi a sindaco di San Francisco e di Fiorello La Guardia a New York? Probabile...
Certo è che in quel momento sembrò impensabile a quanti si erano battuti per Sacco e Vanzetti che le loro ceneri fossero disperse o tornassero in Italia: almeno in parte dovevano restare in America per esser onorate «in un mausoleo» a memoria dell’ingiustizia. Anzi, scrive Luigi Botta, «prima ancora della celebrazione del funerale i militanti stanno già programmando un tour delle salme, conservate in apposite teche, in duecento grandi città americane».
Tramontato il tour, il Comitato di difesa non rinuncia però al sogno di celebrare un giorno i «martiri» in un santuario anarchico. E decidono segretamente che le ceneri dell’uno e dell’altro vanno divise in quattro parti uguali, due destinate all’Italia (e affidate per il viaggio a Luigina Vanzetti, sorella di Bartolomeo) e due agli States, provvisoriamente consegnate a Rosa Zambelli, vedova di Nicola. È l’inizio d’un tormentone inimmaginabile. Che andrà avanti per decenni con un sempre più penoso susseguirsi di annunci e rinunce, viaggi annullati e intoppi burocratici finché uno alla volta muoiono tutti, protagonisti e comprimari, compresa nel 1972 Alfonsina Brini che dal 1931 ha custodito le «care ceneri» vanzettiane... Finite alla Boston Public Library.
Vecchio, stanco e solitario, agli sgoccioli della storia, Giovanni Vanzetti non ha però rinunciato. E ieri, con l’aiuto di Botta, ha spedito alla biblioteca americana la sua ultima invocazione: «Lo scrivente, nella sua qualità di famigliare ed erede diretto di Bartolomeo Vanzetti, si rivolge rispettosamente alle autorità statunitensi depositarie dei preziosi resti affinché predispongano la naturale destinazione dell’urna al luogo ove la medesima dovrebbe trovarsi, cioè al cimitero di Villafalletto, affinché possa essere depositata nel rispetto del destino umano, finalmente in pace con sé stessa e col mondo, a fianco dell’altra urna contenente la metà delle ceneri, già presente, vicino ai propri familiari, dall’ottobre 1927».