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 2023  dicembre 20 Mercoledì calendario

Innamorati da morire della vita storia dell’ultima coppia felice del punk

Questa volta nessuna canterà in duetto con lui «Buon Natale stronzo, prego Dio che sia l’ultimo insieme». Shane MacGowan non c’è più, è stato risucchiato dal destino il 30 novembre scorso dopo un percorso smodato però onesto: il mondo che lo circondava aveva subito annusato la poesia della sua arte povera ma così ricca, sincera, odorosa di folk, di country, rock, ska; di ribellione e sentimenti profondi come solo gli irlandesi – persino i pochi astemi – sanno provare. Fairytale of New York, una lite fra un alcolizzato e una drogata, è considerata una delle più belle canzoni di Natale nella sua Irlanda dove al cuor non si comanda, ma è assai amata pure in tutto il resto del mondo occidentale che non ascolta Mariah Carey (e ce n’è). Shane compirebbe 66 anni proprio il giorno di Natale. C’è chi lo ricorda se esce il nome dei Pogues, la band che aveva fondato negli’80, oppure se gli parli di quel tipo arruffato e poco affascinante che sembrava un ragazzino con le rughe e aveva come segno distintivo i denti scrausi e rari per via di tutte le volte che se ne rompeva uno cadendo da ubriaco.
Canterà fra sé Fairytale of New York, certamente con amore, Victoria Mary Clarke sua moglie. Anche lei si aspetta che il brano torni in classifica in questi giorni: era, idealmente, la partner nel dialogo. Una tipa tosta che – come accade – scese con lui negli inferi a lungo, nei quarant’anni che vissero insieme. Victoria ha 57 anni, si conobbero che lei ne aveva 16 in un pub, perché lui le chiese di comprare una birra per il suo compagno di band. Bei tipi tutti e due. È giornalista e scrittrice, è sua la biografia del 2001, A drink with Shane MacGowan si intitolava spiritosamente: Shane raccontava la propria vita come può raccontarla uno che ha fatto il pieno di alcol, e lei era stata capace di renderne credibile lo stile sconnesso, dopo tanta vita insieme.
Ne ha passate davvero, Victoria, con quello strano personaggio che sembrava la caricatura di un irlandese. All’inizio non litigavano mai, ma quando Shane iniziò la scalata all’abuso di sostanze, non sapeva più come fare: «Prendeva cento pastiglie di acido in un giorno, poi saltava fuori dal finestrino di un taxi in movimento, oppure si dipingeva di blu e ancora dava fuoco alle cose. Ha incendiato molte camere d’albergo, mentre ci stavamo dentro. Vivevamo al limite dell’autodistruzione». Molte volte lo trovava a letto con le groupies, lui si arrabbiava e lei lo picchiava e poi giurava che non l’avrebbe mai più visto: «Ma poi non ero capace di stare lontana, e lui lo sapeva». Nel periodo in cui stavano a Los Angeles, «prendeva eroina, crack e metanfetamine in cristallo poi saltava su una cyclette e si metteva a pedalare come un pazzo, e io temevo gli venisse un infarto».
Alla fine dei ’90 il carico delle sostanze finì per impedire al talento di MacGowan di esprimersi. Vissero in una casa comunale fatiscente, un poveretto morì sul pavimento del loro soggiorno. «Ne morivano tanti, ma Shane sembrava sempre l’unico destinato a salvarsi». Victoria nel frattempo era diventata della partita, fra droghe e alcol: «Lui scriveva come niente fosse, io scrivevo, disegnavo e non mi filava nessuno. E mi diceva: devi credere in te stessa, hai talento. Questo mi ha aiutata». Finirono entrambi in rehab, lei soprattutto a causa della depressione: «Avevo sempre paura delle critiche e dei giudizi, lui sembrava richiamarli a sé». Si separarono, e Victoria pensava che non sarebbero mai tornati insieme. Periodo difficilissimo: «Chiesi aiuto agli angeli», e giura che cominciarono ad apparire, sotto forma di particelle di luce o profumi diversi. Finì per scrivere un libretto divertente e assurdo di autoaiuto, Angel in disguise?, nel quale chiedeva tra l’altro agli angeli perché mai si sentisse addosso la voglia di fumare crack con Pete Doherty, quasi un marchio nel settore del consumo di sostanze.
Negli anni Victoria e Shane si erano separati in verità più volte, oppure lui era semplicemente sparito: «Sparito tante volte, nei posti peggiori. E io mi consolo leggendo l’autobiografia di Ozzy Osbourne», confidò in un momento un po’ così. Quando poi si ritrovarono, si sposarono a Copenhagen: «Nel periodo in cui eravamo lontani, era molto cambiato, faceva quel che gli dicevo. Aveva smesso con l’eroina e il fumo, litigavamo solo perché non faceva fisioterapia: si era rotto il bacino nel 2015 e ne aveva assolutamente bisogno. La nostra relazione divenne più profonda».
L’ha rintracciata qualche giorno fa il quotidiano inglese The Guardian, per una lunga conversazione, e l’ha trovata tutto sommato bene: «Perché sento che lui è ancora qui, specie quando sto seduta sulla sua poltrona o guardo le sue foto è come se comunicasse con me». È una delle avare convinzioni delle vedove più disperate, ma Victoria dal 30 novembre ha ricevuto molti segni d’amore, il funerale è stato come un’esplosione di sentimenti: gli irlandesi conoscevano bene la sua sincerità, documentata dalle canzoni che attingevano al folk tradizionale narrandone le giravolte alcoliche e poi il down. La cerimonia funebre è stata una kermesse, il web è pieno di testimonianze di quel momento, vista la caratura dei presenti, un po’ maledetti seri come Nick Cave che ha cantato al pianoforte A rainy night in Soho dei Pogues, un po’ maledettini in salsa hollywoodiana come l’affranto Johnny Depp, che qualche anno fa aveva prodotto un documentario su vita e opere di Shane, Crock of gold, e durante la cerimonia ha chiesto all’amico scomparso di aiutare da lassù, come i santi, coloro che soffrono. Non è mancata una versione di Haunted, che fu un duetto rockeggiante fra MacGowan e una giovanissima e timida Sinéad O’Connor: se n’è andata a fine luglio, lei, e staranno ora veleggiando in cieli pieni di temporali colorati da arcobaleni. Per l’Irlanda è stato un anno che ha portato via i simboli di un’epoca controversa, la materia stessa con la quale è impastata la loro terra. —