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 2023  dicembre 20 Mercoledì calendario

Una manovra che non produce crescita Il debito sale, pagheranno i giovani


Giorgia Meloni è certamente capace di infiammare gli animi, come ha dimostrato anche nel discorso conclusivo del raduno di Atreju. Infiammare gli animi è generalmente meglio che parlare “alla pancia delle persone” (come lei stessa usava fare in campagna elettorale e come ancora fanno politici della sua compagine governativa), ma si tratta pur sempre di vedere verso quali obiettivi si indirizzano gli animi infiammati. L’impressione che ad Atreju ci fosse soprattutto entusiasmo da “neofiti del potere” non tranquillizza rispetto a traguardi di medio termine di cui il Paese ha invece estremamente bisogno. Prendiamo la legge di bilancio, approdata in Parlamento per un’approvazione a tappe forzate entro fine mese. Una legge di bilancio certo non irresponsabile sul piano finanziario – e infatti non ha allarmato i mercati, rischio sempre presente in un paese fortemente indebitato – ma sostanzialmente irrilevante sul versante della spinta alla crescita economica, dove prevale il piccolo cabotaggio.
È però proprio la mancanza di crescita che ha determinato l’impoverimento relativo del Paese e la stagnazione delle retribuzioni negli ultimi decenni, a differenza di quanto accaduto nella maggior parte degli altri Paesi europei dove, nello stesso periodo, la crescita del Pil è stata più sostenuta e le retribuzioni sono aumentate, generalmente a due cifre. Ed è stata ancora l’assenza di crescita a indurre il governo ad aumentare i salari netti (dopo avere già favorito, con flat tax e pace fiscale, i redditi da lavoro autonomo e impresa) essenzialmente attraverso la decontribuzione, ossia il trasferimento al bilancio pubblico di parte degli oneri sociali a carico del lavoratore. Una misura per accrescere le buste-paga medio-basse senza corrispondente perdita della futura pensione, essendo i mancati versamenti addossati alla collettività. Non quella di oggi, peraltro, come sarebbe stato se si fosse deciso per il finanziamento con imposte, ma quella di domani, dato il ricorso al debito. Ennesimo caso di miopia opportunistica da parte di chi, pur di fronte alle crescenti difficoltà dei giovani, non esita ad accollare loro nuovo debito.
La decontribuzione di retribuzioni povere – e per di più immiserite dalla fiammata inflazionistica degli ultimi anni – è una misura che può apparire giusta e opportuna ma che rischia, soprattutto se intesa come permanente, di ingarbugliare e nascondere due importanti problemi, con possibili ripercussioni negative di lungo termine, sia sul piano economico (come improprio sostituto a incrementi di produttività del lavoro), sia sul quello dell’equità, entro e tra le generazioni, con il rischio di estendere la povertà anche in futuro.
Il primo problema è l’amara verità di un Paese in cui una parte rilevante del sistema produttivo non riesce a remunerare in maniera adeguata una frazione crescente di lavoratori, a dare loro prospettive di miglioramento e meno che mai una relativa sicurezza per il futuro. Ed è sempre più evidente come tutto ciò sia collegato al calo della natalità, visto che una crescente frazione di popolazione anziana si troverà a dover dipendere da una frazione decrescente e più povera di popolazione in età attiva.
Al tradizionale divario di redditi tra il Nord e il Sud – allargatosi negli ultimi decenni – si è così aggiunto un dualismo produttivo tra attività “ricche” che fanno profitti, pagano salari elevati, riducono la settimana lavorativa senza ridurre il salario, estendono il welfare aziendale offrendo previdenza e assistenza sanitaria integrativa; e, per contro, attività povere che stanno in piedi soltanto grazie a sussidi pubblici e a salari bassi che richiedono sostegni pubblici per arrivare a livelli minimamente accettabili. È abbastanza chiaro come questa situazione non sia di equilibrio, né compatibile con la crescita del Paese. Ed è anche chiaro che il problema debba essere risolto alla radice nel medio periodo, non soltanto tamponato nel breve con varie forme di decontribuzioni annuali finanziate a debito. La soluzione, infatti, si può trovare solo nell’investimento, cioè in spese che rendano le imprese più efficienti e più produttive, più capaci di affrontare la competizione e di remunerare meglio i lavoratori, direttamente e indirettamente (con orari più flessibili, smart working…). Lo si può fare aumentando la spesa pubblica in istruzione, sanità, ricerca, favorendo l’innovazione e l’aggregazione tra imprese in modo da superare il male cronico di una struttura imprenditoriale ancora troppo basata sulla piccola o piccolissima impresa, che può soltanto offrire bassi salari.
È anche chiaro come questo dualismo mal si accordi con il sistema di valori della destra, che vede la soluzione soltanto nella detassazione e nella maggiore libertà dell’iniziativa privata, misure che possono favorire temporaneamente i profitti ma scapito del bilancio pubblico e della produttività. Se la spesa pubblica – possibilmente al netto degli sprechi – deve aumentare in quantità e qualità, anche la tassazione su chi ha capacità contributiva (redditi e patrimoni elevati) deve salire. Non si può sempre ricorrere al debito, anche ammesso che l’Europa lo consenta. Ne deriverebbe un ulteriore squilibrio tra generazioni, da noi arrivato quasi al punto di rottura. Abbassare la tassazione, com’è previsto nella delega fiscale, significa peggiorare la posizione dei fragili di oggi e aumentarne il numero domani.
E qui il discorso si interseca con il secondo problema, che tocca direttamente un aspetto centrale del “contratto tra generazioni”, ossia il sistema previdenziale. Dopo la sostanziale rinuncia alla cancellazione “della Fornero”, dopo il fallimento di tentativi di ulteriore inasprimento dei requisiti a danno della categoria dei medici, fino a qualche tempo osannata, la destra dovrebbe mettersi il cuore in pace: lo spazio fiscale per una controriforma pensionistica non c’è. E quello economico per rendere sostenibile un’autentica flessibilità del pensionamento dipende soltanto dalla crescita dell’occupazione e dei salari. La fiscalizzazione strutturale dei contributi, innestata nel nuovo metodo contributivo di calcolo delle pensioni, rischia invece di compromettere la stabilità del sistema pensionistico, come tante volte è accaduto in passato quando le interferenze politiche, pur motivate da buone intenzioni, ne hanno compromesso la sostenibilità, proprio a danno dei più giovani. Ma questo è un tema sul quale converrà tornare. —